Curcio Medie

Il termine «diritto» ha molteplici significati.

Può indicare, infatti, l’insieme di regole che disciplinano i comportamenti umani (diritto oggettivo); la pretesa del singolo di esigere determinati comportamenti da parte di tutti gli altri soggetti (diritto soggettivo); la scienza della materia giuridica (scienza del diritto); il complesso delle regole (norme giuridiche) fissate dallo stato per disciplinare le relazioni tra gli individui (diritto positivo). Nell’ambito del diritto positivo, inoltre, si usa distinguere tra diritto pubblico (concernente gli interessi della collettività) e diritto privato (concernente gli interessi del singolo in quanto tale). Il diritto pubblico si articola a sua volta in diritto costituzionale, amministrativo, penale, processuale civile, processuale penale, ecclesiastico, internazionale ecc.); quello privato in diritto civile e diritto commerciale.

Un’altra distinzione fondamentale è quella tra civil law e common law, le due grandi categorie in cui si è soliti suddividere i sistemi legislativi. Mentre la civil law è adottata nei paesi dell’Europa continentale, la common law è invece caratteristica dei sistemi britannici (Scozia esclusa) e, in generale, dei paesi anglofoni (tra cui l’India e la Nigeria, che adottano un sistema di common law integrato a regole giuridiche di derivazione religiosa). Gli ordinamenti di common law, in particolare quello inglese e quello statunitense, si fondano sul principio anglosassone dello stare decisis («rimanere su quanto si è deciso»), fondato sul cosiddetto «precedente giudiziario vincolante».
Ciò significa che un importante (e, appunto, vincolante) fondamento giuridico di questa configurazione legislativa è costituito dai precedenti creati dalle passate sentenze, cui è necessario richiamarsi per avvalorare determinati principi e per decidere i criteri a cui attenersi. I modelli di ordinamento giuridico che adottano la civil law, invece, traggono le loro radici dalla codificazione napoleonica (v. Napoleone Bonaparte) e dal modello che questa ha introdotto in Francia ai primi dell’Ottocento; tali ordinamenti, al contrario di quelli basati sulla common law, si fondano su una serie di norme raccolte in codici, che i giudici (e la giurisprudenza in generale) hanno il compito di interpretare e applicare.

Con «filosofia del diritto», invece, s’intende la disciplina filosofica che ha come oggetto del suo studio il concetto di «diritto», inteso sia come insieme di leggi che come idea di giustizia. La prima formulazione della filosofia del diritto prende forma già nell’antichità greca (v. Grecia), dove però il diritto è inteso come un ordine razionale imposto al di fuori dalla realtà umana. Secondo Eraclito e Pitagora, il diritto è uno degli aspetti della fisica, parte della costituzione stessa dell’universo. Tale idea di giustizia naturale si ritrova anche in autori successivi, come Socrate e Platone. Secondo Aristotele, invece, l’idea di giustizia è legata al bene e alla felicità comune. È evidente, dunque, che nella prima fase del pensiero filosofico, la filosofia del diritto si costituisce come riflessione sui concetti filosofici di «giusto» e di «giustizia», più che su un particolare ordinamento di leggi.

Nel periodo medievale (v. medioevo), invece, la riflessione sullo stato e sulla giustizia viene subordinata alla teologia: sant’Agostino, per esempio, distingue tra «civitas» e «civitas Dei», dove solo la seconda è una piena realizzazione di giustizia, quella divina (v. Dio). In questo senso, la giustizia naturale della filosofia greca diventa la giustizia del Dio cristiano (v. cristianesimo) e, dunque, le leggi degli uomini sono tenute a ispirarsi ai principi della teologia romana. Con san Tommaso e l’ultima speculazione scolastica, poi, il problema della giustizia trova la sua più alta espressione nel periodo medievale, mediante la distinzione tra «lex aeterna» (propria della mente divina) e «lex naturalis (attraverso la quale l’uomo distingue ciò che è bene e ciò che è male).

Con il passaggio all’umanesimo e al rinascimento, il diritto inizia a fondarsi sulla realtà umana, presa come tale e al di là di eventuali determinazioni divine. A partire da questo punto di vista, l’olandese Grozio stabilisce il diritto naturale sulla base delle particolari determinazioni della realtà sociale dell’uomo e lo stato come unione tra uomini finalizzata al bene comune. Le riflessioni di Grozio danno origine a quella vasta corrente di pensiero nota come giusnaturalismo, con la quale si confrontano i maggiori filosofi del diritto. Thomas Hobbes, ad esempio, costruisce il suo sistema filosofico a partire dal patto stabilito dagli uomini per uscire dallo stato di natura. Con esso, gli uomini rinunciano al loro diritto per sottomettersi a un sovrano che ha come scopo il mantenimento della pace civile: il sovrano ha diritto di vita e di morte sui cittadini pur di mantenere la stabilità del regno.

In opposizione alle tesi di Hobbes sullo stato di natura (che fanno di Hobbes una sorta di precursore del positivismo giuridico, vale a dire della dottrina che considera come unico possibile diritto quello prodotto dal legislatore), Locke vede invece il patto tra gli uomini non come alienazione di diritti ma come limitazione dell’arbitrio del singolo e difesa dei diritti fondamentali alla libertà e alla proprietà: secondo Locke, questi due diritti costituiscono il nucleo essenziale del «diritto naturale». Fondandosi sulla filosofia empirista, Locke fonderà quello che sarà conosciuto come liberalismo. In polemica sia con Locke che con Hobbes, invece, Rousseau tenterà di fondare la filosofia del diritto non soltanto sull’esperienza storica dei rapporti sociali, ma su una scelta dettata dall’attività razionale per uscire dallo stato di natura in cui originariamente si trova l’uomo. Uno stato che Rousseau dipinge in termini idilliaci come lo stato del «buon selvaggio».

Alla fine del Settecento, Kant supera tanto il punto di vista empirico, che quello razionale, unendo attività morale e diritto: la libertà deve essere regolata da una norma razionale che regola i rapporti tra le differenti volontà degli uomini. La stabilità dello stato dipende dunque dal mantenimento della legge che regola la coesistenza delle diverse volontà: lo stato coincide dunque con il diritto e con il suo mantenimento. A partire dall’elaborazione dello stato giuridico kantiano, la filosofia idealista (v. idealismo) tedesca considererà le leggi di uno stato come l’espressione del suo Spirito collettivo, ossia del suo nucleo fondativo. La filosofia di Hegel porterà poi a compimento l’ideale romantico e idealista delle leggi come espressione dello Spirito nazionale, influenzando gran parte del dibattito successivo.