Curcio Medie

Il termine indica un antichissimo genere letterario, che canta le leggende eroiche di un popolo e celebra la nascita di una stirpe o di una nazione. Ha quindi per tema le gesta gloriose di eroi e di cavalieri, battaglie e avventure guerresche.

Le origini. I poemi epici più antichi sono quelli delle più remote civiltà asiatiche, come l’epopea mesopotamica (v. Mesopotamia) di Gilgamesh, che risale al XXVI secolo a.C. e ci è giunta scritta in caratteri cuneiformi su tavolette di argilla. Celebra le imprese del mitico re sumero (v. sumeri) di Uruk, Gilgamesh, la morte del suo amico Enkidu, le sue battaglie con animali e mostri; nell’undicesimo dei 12 canti in cui è diviso il poema è narrato il diluvio universale, con particolari molto simili a quelli dell’analoga narrazione biblica.

L’opera ha momenti di alta poesia, densi di una sensibilità sorprendentemente moderna e pervasa da un cupo sentimento della morte.

Antichissimo è anche il poema in lingua sanscrita, Mahabharata, di oltre 120.000 strofe, il più ampio poema di tutti i tempi e di tutti i paesi, testo fondamentale della civiltà indiana. La sterminata mole dell’opera tratta argomenti vari e complessi; il suo nucleo più importante, tuttavia, è di carattere epico e celebra le guerre dell’antica stirpe dei re Bharata nei suoi due rami dei Kuruidi e dei Panduidi. Tutto il patrimonio della civiltà indiana è rappresentato in questo poema, le tradizioni religiose dell’antico brahmanesimo e dell’induismo, la filosofia, il costume, i miti, con risultati di alta poesia.

Anche la Persia (v. Impero persiano) ebbe il suo poema epico nazionale col Libro dei Re (o Shahname), scritto dal poeta Firdusi intorno all’anno Mille, ma che raccoglie le leggende della nazione iraniana dalla creazione del mondo fino alla conquista islamica della Persia.

Epica greca. L’epica greca è legata soprattutto ai due grandi poemi, Iliade e Odissea, che la tradizione attribuisce a Omero e che costituiscono il momento più alto di un’antica fioritura di canti epici, tramandati a voce dagli aedi, che li cantavano alle corti dei re achei. Il loro successo fu immenso e dette origine, dal VII al V secolo a.C., a tutta una serie di altri poemi raccolti in cicli, benché il loro valore non si può paragonare a quello dei poemi omerici.
Fra i poemi epici della tarda grecità, fioriti nell’età alessandrina, sono importanti le Argonautiche di Apollonio Rodio (III secolo a.C.), che narrano il viaggio della nave Argo, guidata da Giasone, alla conquista del vello d’oro, attraverso il Mar Nero, il Danubio, il Po, il Rodano, fino al ritorno nel Mediterraneo. Ma ormai lo spirito eroico dell’antica Grecia si era affievolito, per dar luogo a opere più di erudizione artificiosa che di autentica poesia.

Epica romana. Anche la letteratura latina ebbe inizio sostanzialmente col genere epico; suo primo autore è infatti considerato, tradizionalmente, Livio Andronico, che tradusse l’Odissea dal greco e la fece conoscere ai romani sul finire della prima guerra punica, intorno al 240 a.C. Dopo di lui, il poeta Nevio scrisse il poema La guerra punica, celebrante le imprese del popolo di Roma e dei suoi generali contro Cartagine: fondò così l’epica romana vera e propria, che, a differenza di quella greca, mitica e leggendaria, era più aderente agli avvenimenti storici e non nascondeva chiari intenti educativi.
Seguirono quindi gli Annali di Ennio (239-169 a.C.), poema che cantava la storia di Roma dalle origini a oltre la seconda guerra punica: ne sono giunti a noi circa 600 versi, che già rivelano l’alto livello di maturità poetica di questo autore. Ma il poema epico romano per eccellenza, gloria della latinità, è l’Eneide di Virgilio, fiorito nell’età di Augusto, in cui si racconta la venuta di Enea in Italia, profugo da Troia, e la fondazione della stirpe latina. Anche durante l’età imperiale l’epica dette materia a opere importanti, tra le quali la più singolare e dalle caratteristiche tipiche dell’epica romana è la Farsaglia di M.A. Lucano, che narra addirittura avvenimenti recentissimi come le guerre tra Cesare e Pompeo.

Epica medievale nell’Europa del nord. Dopo la caduta dell’Impero romano e col sorgere dei regni barbarici, il latino, già diffuso in gran parte dell’Europa, venne rapidamente decadendo e con esso l’antica letteratura romana. I popoli della Germania e dell’Europa del nord, che avevano avuto contatti più o meno diretti con la cultura latina e che avevano raggiunto un notevole grado di maturità nazionale, svilupparono una loro poesia che si esprimeva in canti, tramandati oralmente, a celebrazione delle imprese eroiche (le saghe).
La lingua usata era l’anglosassone, parlato da scandinavi, angli, sassoni, danesi. Verso l’XI secolo questi canti vennero raccolti e trascritti e dettero così origine ad alcuni poemi di importanza storica grandissima, perché documento di un’epoca e di un’area della civiltà europea che noi altrimenti ignoreremmo quasi del tutto. Tra questi poemi vi sono: I canti dell’Edda, 39 canti in antico islandese; il Beowulf in sassone; Kalevala, vale a dire «Terra di Kaleva», in finnico.

Epica germanica. Oltre che in Scandinavia, anche in Germania, fiorirono nell’alto medioevo numerosi canti guerreschi, tramandati oralmente. Nel XII secolo essi vennero raccolti in un ampio poema, scritto in tedesco antico, Il cantare dei Nibelunghi, dove vennero ripresi elementi epici già apparsi nell’Edda. Si tratta di 39 canti, per un totale di oltre 8.000 versi in quartine, che descrivono, nella prima parte, le gesta di Sigfrido e il suo amore per Crimilde, fino alla morte dell’eroe per tradimento; nella seconda, la strage dei Burgundi alla corte del re Attila.
Opera di un anonimo autore della Germania meridionale dei primi anni del XIII secolo, il poema costituisce l’esaltazione delle più tipiche virtù guerresche del popolo germanico, nel momento in cui esso affermava la propria giovinezza di fronte al declino dell’Impero romano. Soprattutto nell’Ottocento romantico, lo spirito di questo poema influenzò grandemente la poesia e la musica tedesca e fu ripreso da R. Wagner per un suo ciclo di opere.

Epica francese. L’epica francese si sviluppò soprattutto nella Francia del nord, dove si parlava la lingua d’oil, e si divise in due cicli, cioè in due serie ben distinte di poemi: il ciclo carolingio, che cantava le imprese di Carlo Magno e dei suoi cavalieri, detti paladini, e il ciclo bretone, che narrava le vicende di re Artù e dei suoi cavalieri, detti della Tavola Rotonda perché sedevano a un tavolo rotondo, appunto, per evitare le distinzioni tra i cavalieri.

Il ciclo carolingio comprende una serie di poemi detti chansons de geste («canzoni di gesta»), composizioni poetiche fiorite tra l’XI e il XIV secolo, che hanno, come argomento di fondo, le leggende sorte attorno alle guerre combattute tra franchi e saraceni e alle gesta compiute da Carlo Magno per ricacciare i mori al là dei Pirenei e liberare la cristianità dall’assalto musulmano. Si tratta quindi di componimenti di carattere epico, risonanti spesso di battaglie e duelli, dove non c’è posto che per i più nobili sentimenti di fedeltà al re e alla religione di Cristo, espressi (specialmente nei poemi più antichi) in forme ingenue e rozze, ma spesso molto potenti e di autentico valore poetico. Al ciclo ispirato a Carlo Magno appartiene la più nota delle canzoni di gesta, la Chanson de Roland («Canzone di Orlando»), che ne è anche il capolavoro.
Composta di 4.002 decasillabi, l’ultimo dei quali sembra indicare, come autore del poema, Turoldo, di cui non si hanno altre notizie, fu scritta probabilmente all’inizio del XII secolo e narra l’ultima impresa di Orlando (Roland), nipote di Carlo Magno. Oltre a Orlando, altri personaggi sono il saggio Olivieri, l’arcivescovo guerriero Turpino e il traditore Gano, che pagherà alla fine con orribile morte il suo tradimento. Ma su tutti, solenne e severa, domina la figura di Carlo, vecchio ormai di duecent’anni, ma ancora vigoroso, nonché simbolo di tutte le virtù della «dolce Francia», dei suoi castelli, dei suoi fedeli cavalieri.
Nell’Ottocento, soprattutto da parte della critica romantica, si ritenne che questi componimenti derivassero da cantilene cantate nelle piazze e raccolte da diversi autori; oggi si tende piuttosto a ritenere queste opere frutto di autori singoli, sorretti da notevoli qualità poetiche, che seppero infondere nella materia popolare lo spirito che aleggiava nelle corti del medioevo durante l’età delle crociate. Il successo delle canzoni di gesta durò incontrastato per parecchi secoli fino alle soglie dell’età moderna, quando finirono per mescolandosi con elementi del ciclo di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda, dando spunto a romanzi d’avventura cavalleresca, come l’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo, o l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

Il ciclo bretone comprende una serie di poemi che, accanto alle imprese di guerra, accolgono anche l’amore, e anzi ne fanno spesso il solo motivo ispiratore, nell’ambiente delle raffinate corti medievali e dei tornei cavallereschi. Questi nuovi poemi hanno come figura principale quella del mitico re inglese Artù e dei suoi cavalieri. Le leggende più note del ciclo bretone sono quelle dell’amore di Ginevra, sposa infedele di re Artù, e di Lancillotto, quelle intorno all’amore di Tristano e Isotta, quelle, infine, di carattere spiccatamente religioso, intorno alla ricerca del santo Graal, la coppa usata da Gesù nell’ultima cena e nella quale, secondo la tradizione, era stato raccolto il suo sangue dopo la morte sulla croce.
Il maggiore di questi poeti francesi fu Chrétien de Troyes, vissuto sul finire del XII secolo alla corte del conte di Troyes in Francia, e autore, più che di epica in senso stretto, di romanzi in versi, scritti in francese antico. Sono opere di grande forza poetica, dove il tema dell’amore è approfondito con acuta penetrazione e dove la materia cavalleresca, che qui scopre la sua complessità, è trattata con raffinata dignità letteraria. Di grande interesse, sempre in francese antico, sono pure due celebri racconti, che avrebbero avuto notevole influenza sulla poesia successiva: il Romanzo della Rosa e il Romanzo di Renart.

Il ciclo classico cavalleresco va situato accanto ai due grandi cicli carolingio e bretone; si tratta di una serie di opere che mostrano una curiosa contaminazione delle antiche leggende greche e romane, adattate al mondo cavalleresco medievale e nelle quali gli antichi eroi, come Ettore, Enea, Achille (ma anche personaggi storici come Alessandro Magno e Giulio Cesare), acquistano i caratteri dei cavalieri cristiani. Tra questi romanzi, in gran parte anonimi, spicca il vasto poema di Benoit de Sainte-Maure (XII secolo) intitolato il Romanzo di Troia (circa 30.000 versi) dove sono intrecciate infinite avventure e vengono rielaborati i miti greci degli amori di Giasone e Medea e di Elena e Paride.

Scritto da un anonimo verso la metà del XII secolo, conta di circa 4.000 versi che narrano le imprese di Rodrigo Díaz de Vivar (detto dai cristiani El Campeador, cioè «il Campione», e dagli Arabi il Cid, cioè il «signore»), impegnato in una serie di avventure e di battaglie contro i mori; altri personaggi sono le figlie del Cid, Elvira e Sol, e i loro mariti, i vili conti di Carrión; momenti salienti, la conquista di Valencia e la sconfitta del re di Siviglia.

Anche questo poema è caratterizzato, come le canzoni di gesta francesi, dal profondo sentimento di lealtà verso il proprio sovrano (che qui è il re Alfonso VI, 1072-1030 circa) e dallo spirito cavalleresco, che, più tardi, avrebbe influenzato tanta parte della letteratura spagnola.

Epica russa. Nell’ambito dello sviluppo culturale raggiunto dai popoli slavi delle pianure della Russia a contatto con il cristianesimo, brilla di singolare forza poetica un canto anonimo scritto nel XII secolo, il Canto della schiera di Igor. Narra un episodio della guerra tra i russi, guidati dal principe di Novgorod, Igor Sviatoslavic, e la tribù dei polovcy, la cattura del principe, la sua prigionia, la sua fuga e il ritorno presso la sposa Jaroslavna. Il poema è il primo monumento letterario della cultura russa, opera che rivela una sorprendente maturità poetica, un grande sentimento della natura e, come tutte le altre opere dell’epopea medievale, un profondo attaccamento alla propria terra.

Epica cavalleresca in Italia e in Spagna. Come già era accaduto per i poemi del ciclo carolingio, anche quelli del ciclo bretone e classico si diffusero in tutta Europa, dando vita ad opere analoghe anche in prosa. In Italia dettero origine a una serie di opere scritte in un linguaggio misto di francese e di italiano (particolarmente, di volgare veneto), detto appunto franco-veneto, o franco-italiano. L’esponente maggiore di questa letteratura fu Rustichello da Pisa (XIII secolo), che rimase famoso anche per aver raccolto in carcere le memorie di viaggio di Marco Polo.
Ma in Italia questa materia cavalleresca avrebbe trovato ben altra fortuna tre secoli dopo, quando, nelle corti italiane del rinascimento e particolarmente in quella di Ferrara, Boiardo fuse insieme la materia epica e religiosa del ciclo carolingio con quella amorosa e avventurosa del ciclo bretone scrivendo l’Orlando innamorato, dove appunto l’invitto paladino di Carlo, Orlando, che negli antichi cantari carolingi si curava soltanto della sua fede e del suo re, s’innamora perdutamente della bella Angelica e vive per lei le più strabilianti avventure; e su questa traccia si pose anche Ariosto con il capolavoro della letteratura cavalleresca, l’Orlando furioso, dove l’eroe addirittura impazzisce per amore.

In Spagna, il successo del ciclo bretone dette lo spunto al romanzo intitolato Amadigi di Gáula (1508), redatto dallo spagnolo Garci de Montalvo. è un’opera importante, perché ebbe diffusione immensa in tutta Europa e anche perché, dalla figura del perfetto cavaliere Amadigi derivò, almeno in parte, lo spunto per il personaggio immortale di Miguel Cervantes, don Chisciotte (v. Don Chisciotte della Mancia).

Epica moderna. La grande stagione dell’epica medievale si esaurì nel XIII secolo. Il tentativo, operato nel secolo seguente da Francesco Petrarca, di riesumare la materia epica romana col poema in latino Africa (1342) non ebbe seguito. In Italia, durante il rinascimento, alla ripresa dell’uso del volgare in forma letteraria, rifiorirono le antiche leggende cavalleresche nei poemi citati di Baiardo e di Ariosto, preceduti da Luigi Pulci col suo Morgante (1478); e tentativi di carattere più spiccatamente epico furono fatti da altri autori, come per esempio dal poeta vicentino Gian Giorgio Trissino (1478-1550) col poema l’Italia liberata dai Goti (1547); ma bisogna giungere al capolavoro di Torquato Tasso, la Gerusalemme liberata, per incontrare un modello riuscito di poema eroico, dove la materia storica della prima crociata si riallaccia alle antiche canzoni di gesta e all’epica greca e romana, sorretta da un profondo spirito religioso, cristiano e moderno.

Tentativi che pure ebbero risonanza al loro tempo, ma restarono isolati, come l’Enriade di Voltaire, furono compiuti nel XVIII secolo e anche nel XIX secolo, Ma nel XIX secolo lo spirito epico, favoloso e avventuroso, degli antichi poemi, subì profonde modificazioni, soprattutto sotto l’influenza del movimento romantico, che riprese le remote saghe medievali, ma trasformandole secondo lo spirito dei nuovi tempi, secondo la sensibilità moderna.

Tuttavia l’appellativo di epico può ancora essere propriamente utilizzato per quelle opere moderne a sfondo guerresco ed eroico che esaltano l’affermarsi di una nuova nazione o di un grande moto di popolo, quando il poeta sia riuscito a infondere nella materia storica un’autentica vibrazione poetica.
Alcuni romanzi russi del XIX secolo, per esempio, come Taras Sulba (1835) di Nikolaj Gogol o Guerra e pace (1869) di Lev Tolstoj, sono animati da un vero spirito epico, così come certe pagine de I miserabili di Victor Hugo ispirate ai moti del 1830, o quelle del poema Lenin (1925) di Vladimir Majakovskij, che canta l’affermarsi della rivoluzione russa.