Curcio Medie

Nel 1868 il trono di Spagna vacante era stato offerto al principe Leopoldo di Hohenzollern-Sigmaringen, discendente della casa reale prussiana. Questa candidatura, fortemente sostenuta da Bismarck, veniva in realtà osteggiata dai Francesi, che riuscirono ad ottenere la rinuncia di Leopoldo, ma vollero anche l’impegno di Guglielmo I re di Prussia a non appoggiare la candidatura alla corona di Spagna di un nuovo esponente della famiglia Hohenzollern. Il re in quel periodo si trovava presso Ems e rispose con un cordiale rifiuto. Bismarck, essendo venuto in possesso di questo dispaccio, lo modificò cancellando alcune parole, facendo diventare secco e definitivo un rifiuto che, invece, nelle intenzioni del re, andava chiarito di persona. Con la sofisticazione del telegramma di Ems il cancelliere riuscì a perseguire il suo obiettivo: i Francesi, indignati, dichiararono infatti guerra alla Prussia, che in questo modo diventava paese aggredito, e non aggressore. Durante il conflitto franco-prussiano, che tante conseguenze ebbe sugli equilibri europei (la revence francese fu uno dei motivi della prima guerra mondiale) Bismarck riuscì anche nel suo intento di unificare l’intera Germania (federazione di 25 Stati) e il 18 gennaio 1871 Guglielmo I venne insignito del titolo di imperatore (kaiser) tedesco.

 

Mi decisi il 12 luglio a partire da Varzin per Ems, per raccomandare a Sua Maestà la convocazione del Parlamento dell’Impero a fine di provvedere alla mobilitazione. […] Entrando nel cortile della mia casa a Berlino e prima ancora di scendere dalla carrozza ricevetti telegrammi da cui risultava che il re, dopo le minacce e le offese francesi, fatte dal parlamento e dalla stampa, continuava tuttavia a trattare con Benedetti, senza rimandarlo con fredda riserbatezza ai suoi ministri. Durante il desinare a cui presero parte Moltke e Roon giunse all'ambasciata di Parigi la notizia che il principe di Hohenzollern aveva rinunciato alla candidatura per evitare la guerra di cui la Francia ci minacciava. Mio primo pensiero fu di abbandonare il servizio, poiché, dopo tutte le provocazioni offensive che avevano avuto luogo, vedevo in questa sottomissione forzata un'umiliazione della Germania di cui non volevo rendermi ufficialmente responsabile. Quest'impressione di offesa fatta al nostro sentimento nazionale coll'obbligarci a una tale ritirata era in me così prepotente, ch’io ero risoluto di annunziare ad Ems le mie dimissioni. […] Nello stesso senso parlai col ministro della Guerra von Roon: dissi oramai aver noi lo schiaffo francese sulla guancia; e l'arrendevolezza nostra averci posto in tal condizione che, se avessimo voluto far la guerra, la quale sola poteva lavarci questa macchia dal viso, saremmo stati chiamati attaccabrighe; essere la mia posizione attuale insostenibile, già divenuta tale dal fatto che il re, durante la sua cura ai bagni, e sotto la pressione di minacce, aveva per quattro giorni consecutivi ricevuto in udienza l'ambasciatore francese, e, senza chi l’assistesse, esposto la sua real persona ai maneggi spudorati di questo agente francese. Per questa inclinazione a prendere personalmente su di sé solo gli affari di Stato, il re era stato spinto in una situazione che io non potevo approvare; a mio avviso Sua Maestà avrebbe dovuto respingere ogni pretesa che il negoziatore francese, a lui non pari, avesse di trattar d'affari con lui, e dirigerlo a Berlino presso gli uffici competenti […].

Deciso di ritirarmi a dispetto dei rimproveri che mi faceva Roon, il 13 [luglio] l’invitai, unitamente a Moltke, a pranzare da me in tre; e a tavola comunicai loro le mie vedute e le mie intenzioni. Ambedue rimasero costernati assai e indirettamente si lagnarono con me che io approfittassi egoisticamente della maggior facilità che, in confronto a loro, avevo di ritirarmi dal servizio. Sostenni l’opinione che io non potevo sacrificare alla politica la mia dignità, e che essi, come soldati di professione, non essendo liberi di agire, non dovevano considerare la cosa dal medesimo punto di un ministro degli Esteri responsabile. Durante la conversazione mi fu annunziato che si stava traducendo un telegramma in cifre, di circa 200 gruppi se ben ricordo il quale veniva da Ems ed era firmato dal consigliere segreto Abeken. Dopo che fu decifrato me lo portarono, e visto che Abeken aveva redatto e sottoscritto il telegramma per ordine di Sua Maestà, lo lessi ai miei ospiti, i quali furono colti da si profonda costernazione, che ebbero a sdegno e cibi e bevande. Rileggendo il documento, mi soffermai sulle parole con le quali S.M. mi autorizzava a comunicare subito, sia ai nostri ambasciatori sia alla stampa, la nuova pretesa di Benedetti e la ripulsa avutane. L'autorizzazione implicava un incarico. Feci alcune domande a Moltke per conoscere quanta fiducia egli avesse nei nostri preparativi e il tempo che essi richiedevano ancora per poter far fronte a un improvviso pericolo di guerra. Egli rispose che, se la guerra doveva farsi, non c'era nessun vantaggio per noi in una dilazione nel venire alle armi; quando pure non potessimo da principio essere forti abbastanza da difendere ogni punto della riva sinistra del Reno contro l’invasione francese, ben presto tuttavia saremmo pronti alla guerra assai più dei francesi, mentre in un periodo posteriore questo vantaggio si sarebbe fatto minore; rispose che egli, tutto considerato, riteneva più vantaggioso per noi un rapido scoppio della guerra, che non un indugio. Di fronte al contegno della Francia, ci costringeva alla guerra, a mio avviso, il sentimento dell’onore nazionale; e se non avessimo reso giustizia alle esigenze di codesto sentimento, avremmo perduto, quanto al compimento del nostro sviluppo nazionale, tutto il vantaggio avuto nel 1866. Si sarebbe raffreddato di nuovo il sentimento nazionale tedesco, che i nostri successi militari del 1866 avevano reso cosi forte a sud del Meno, come si vide dalla promessa con cui gli Stati del Sud aderirono alla Confederazione.

[…] Così convinto, feci uso dell’autorizzazione reale rimessami da Abeken, di pubblicare il contenuto del telegramma e, mediante cancellature, senza aggiungere o mutare parola, in presenza di ambedue i miei ospiti, ridussi il telegramma alla seguente forma: «Dopo che le notizie della rinuncia del Principe ereditario di Hohenzollern sono state comunicate al Governo imperiale francese da quello reale spagnolo, l’ambasciatore francese in Ems ha richiesto ancora Sua Maestà il Re di autorizzarlo a telegrafare a Parigi che Sua Maestà il Re si impegnava per tutto il tempo avvenire a non dare giammai il suo consenso, qualora gli Hohenzollern ritornassero alla loro candidatura. Sua Maestà il Re ha ricusato di ricevere ancora l’ambasciatore francese e ha fatto dire per mezzo del suo aiutante che non aveva nulla da comunicare all'ambasciatore». La differenza di effetto che il testo abbreviato del dispaccio d'Ems produceva in confronto di quello che avrebbe prodotto l’originale, non era il risultato di parole più vivaci, ma della forma; la quale faceva apparire questa comunicazione come decisiva, mentre la redazione di Abeken sarebbe apparsa solamente come un brano di un negoziato in aria e da continuarsi a Berlino.

Letta ai miei due ospiti la redazione condensata in tal modo, Moltke osservò che «Così ha un altro suono: prima era quello di una ritirata, ora quello di una fanfara che risponde ad una sfida». Io replicai: «Se questo testo, il quale non contiene né cambiamenti né aggiunte al telegramma, ed è conforme all’incarico datomi da Sua Maestà, lo comunico subito non solo alle gazzette, ma anche telegraficamente a tutte le nostre ambasciate, prima di mezzanotte sarà noto a Parigi e farà lì l’impressione del panno rosso sul toro francese, non pure a causa del contenuto, ma anche del come è divulgato. Noi dobbiamo battere se non vogliamo far la parte di chi senza lotta è battuto. Ma l’esito dipende pure, in modo essenziale, dalle impressioni che produrrà presso di noi e presso altri l’origine della guerra; importa che noi siamo gli assaliti e l’arroganza e l’irascibilità dei francesi ci serviranno in questo, se noi, con pubblicità europea per quanto ci è possibile senza il portavoce del Parlamento, annunziamo che impavidi facciamo fronte alle minacce della Francia».

 

[da: O. von Bismarck, Pensieri e ricordi]