Curcio Medie

C’era una volta, tanto tempo fa, un mondo senza radio, senza televisione, senza dischi né musicassette. Pochi sapevano strimpellare uno strumento, eppure danze e canzoni non mancavano mai. Canzoni per accompagnare il lavoro, per parlare d’amore; danze per salutare l’arrivo della bella stagione e tante altre ancora. Le canzoni nascevano non si sa dove, non si sa come, forse per opera di qualche ignoto “cantautore” e poi viaggiavano per il mondo, passando semplicemente di bocca in bocca. Lo stesso accadeva per i ritmi e i passi di danza che si tramandavano di padre in figlio, per secoli, sino a diventare il patrimonio di un intero popolo.
La musica più antica è la musica popolo, quella che oggi chiamiamo, non sempre a proposito, musica “folk”.

Magia del folklore
“Folklore” è una parola di origine abbastanza recente. È stata “inventata” nel 1846 dall’archeologo inglese William John Thoms per dare un nome a tutto ciò che nasce dal popolo: le usanze, i costumi, le feste, i riti, le superstizioni, i dialetti e così via. Il termine è formato infatti dall’unione delle due parole inglesi folk = gente, popolo e lore = sapere. Dunque “folklore” è il “sapere del popolo”, il suo patrimonio di conoscenze e di idee, la sua cultura insomma. Naturalmente, la musica è una parte importante di questa cultura. Nel corso dei secoli — per non dire dei millenni — ogni popolo ha dato vita alle sue melodie e ai suoi ritmi, tanto caratteristici e inconfondibili come lo sono le fogge dei costumi tradizionali, il modo di arredare la casa, di ricamare, di cucinare, di far festa. L’arte folk non è la creazione perfetta e compiuta di un artista di genio, ma è quella lenta e mai terminata di tante generazioni di gente anonima.
Nella musica popolare — o folk come oggi preferiamo chiamarla — non è tanto la creazione che conta, quanto la sua trasmissione. È proprio nel passare di bocca in bocca che la gente le imprime il proprio carattere, la propria genuina natura trasformando, quasi per magia, l’idea originale in una grande creazione collettiva. Certi canti popolari, giunti sino a noi senza essere mai stati scritti, potrebbero raccontarci una lunga storia, senza nomi, senza date, ma di certo ricca di contenuti umani.           

Le forme
Come la musica “colta”, anche quella popolare è costruita secondo determinati modelli o “forme” che, come è facile immaginare, sono però molto più semplici. Ogni genere di canto ha una propria particolare impronta ritmica e melodica secondo lo scopo al quale è destinato. Il canto popolare infatti, a differenza di quello “colto”, non ha intenzioni estetiche, in altre parole non è concepito per fare della “bella musica”, ma ha sempre una funzione pratica ben precisa: ninne-nanne per far dormire i bambini, filastrocche per farli giocare, stornelli e serenate per inviare messaggi d’amore, canti di lavoro per coordinare gli sforzi e alleviare la fatica.
Proprio perché dedicate ai bambini, le ninne-nanne e le filastrocche costituiscono le forme più semplici: un motivetto facile e breve ripetuto più volte in modo uguale, con andamento lento e cullante nelle prime, saltellante e vivace nelle seconde.
I canti di lavoro, molto comuni al tempo in cui non esistevano le macchine e tutto dipendeva dalle braccia dell’uomo, sono canti collettivi, caratterizzati da un ritmo ben scandito che serve a coordinare i movimenti dell’intera squadra. In genere la prima frase era cantata da una voce singola — quella del caposquadra - a cui faceva eco il coro dei lavoratori. Vi erano canti di contadini, di pescatori, di operai e così via.
Di forma più elaborata sono le serenate, vere e proprie “canzoni” che, per la loro destinazione, vantano anche un certo contenuto poetico. Come dice il nome stesso, queste canzoni, con l’accompagnamento di uno o più strumenti, venivano eseguite di sera, sotto le finestre della donna del cuore: un modo semplice e cortese di renderle pubblico omaggio.
Caratteristici per la forma “a botta e risposta” sono i celebri stornelli, nei quali, alla strofa di corteggiamento cantata dall’uomo, risponde quella di arguto diniego cantata dalla donna. È interessante ricordare in proposito che la parola “stornello” deriva dal provenzale estorn dei trovatori medioevali, il cui significato era appunto “contesa”, “tenzone”.
Tra tutte le forme popolari, le ballate sono le più evolute. In origine erano “canzoni per accompagnare il ballo”, caratteristiche per l’andamento ritmico e per le varianti melodiche destinate a guidare i passi e le figure dei danzatori. Col tempo si trasformarono in “canzoni narrative”, fatte cioè per narrare storie di fatti realmente accaduti: vicende d’amore, di tradimenti, di vendette. Queste “cronache cantate” andavano per il mondo, portate di borgo in borgo da musicanti girovaghi: possiamo trovarne tracce nel repertorio dei “cantastorie” che ancor oggi è possibile incontrare nelle piazze di alcune regioni d’Italia.

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La grande lezione del folk
Il folk — quello autentico — è praticamente scomparso. La crescita delle grandi metropoli industriali, il consumismo, i mezzi di comunicazione hanno cambiato radicalmente la società, cancellando del tutto quel mondo arcaico di pastori, di contadini, di pescatori che da tempo immemorabile è stato la sorgente viva dell’arte popolare.
Eppure il folk ci ha lasciato una grande lezione. Non sono pochi gli studiosi e gli appassionati che negli ultimi cinquantanni hanno dedicato tanto lavoro alla raccolta e alla trascrizione dei canti e delle danze popolari, affinchè non vada perso per sempre un tesoro di valore inestimabile. Basta citarne alcuni: l’americano Alan Lomax (1915), gli ungheresi Zoltan Kodaly (1882-1967) e Bela Bartok (1881-1945), gli italiani Diego Carpitella (1924) e Roberto Leydi (1928). Persino le case discografiche, sull’onda del rinato interesse per l’arte popolare, hanno pubblicato e continuano a pubblicare raccolte di canti del folklore di tutto il mondo, favorendone la divulgazione e, in molti casi, il successo. È così che ha potuto avverarsi il trionfo, anche commerciale, di un nuovo filone: il folk song. In America è sfociato negli anni Sessanta nell’affermazione internazionale di cantanti come Bob Dylan (1941), Joan Baez (1941) e altri ancora. Anche la musica colta, nel corso della sua storia, ha attinto largamente alle fonti popolari. I musicisti del Medioevo e del Rinascimento inserivano spesso melodie popolari nelle loro austere composizioni corali. Ma è soprattutto nell’Ottocento romantico che, sotto la spinta degli ideali nazionalistici, i grandi compositori hanno riscoperto il valore dei canti e delle danze della propria terra traendone spunto e ispirazione per le proprie opere. Ricordiamo Chopin con le sue indimenticabili Polacche, Liszt con le Rapsodie ungheresi, il cecoslovacco Smetana con il suo ciclo di poemi sinfonici Ma Vlast (La mia patria), lo spagnolo Albeniz con le sue Danze andaluse, e tanti altri ancora. Purtroppo quando viene trascritto, registrato e “ripulito” presso gli studi delle case discografiche, il folk perde una parte della sua vera natura. Si può dire che da “fiore selvatico” si trasforma in “fiore coltivato”. Il popolo non ha affidato la sua storia a manoscritti o a stampe, ma ai canti, ai balli, ai costumi, alle superstizioni, ai proverbi e alle manifestazioni di fede. Il folklore è l’autentica storia del popolo raccontata dal popolo.

 

 

ATTIVITÀ PER LE COMPETENZE

1. Che cos'è il folkore? Cosa significa etimologicamente?

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2. Quali sono le forme e le intenzioni del canto popolare?

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3. Che cosa sono le balalaike?

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4. In che maniera viene tramandato il canto popolare, dal momento che la stua storia non è stata affidata a stampe o a manoscritti?

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5. Descrivi il mirliton e lo xilofono.

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