Curcio Medie

 

Approfondimento dei termini di linguistica in un unico dizionario

 

ABILITÀ. In glottodidattica, l’acquisizione della capacità di codificazione e decodificazione di una seconda lingua scritta od orale.

 

ACCENTO. Da un punto di vista acustico l’a. consiste in un incremento di intensità o in una variazione di tono (a. dinamico o a. musicale) che riguarda sillabe, parole, sintagmi, frasi. Esso non è una qualità del fonema, ed è pertanto un tratto prosodico (v. prosodia). Riguardo alla sillaba risulta evidente la funzione contrastiva dell’a. che permette di opporre sillabe accentate e non accentate, consentendo in tal modo la distinzione di parole fonologicamente uguali, ma con diverso schema accentuativo (mangio e mangiò, fini e finì ecc.). Riguardo alla parola risulta evidente la funzione culminativa dell’a., che permette di individuare quanti elementi di prima articolazione siano presenti nella frase (es. “non màngio quésta ròba”). La funzione dell’accento nei sintagmi è fondamentalmente coesiva (dietro-l’àngolo, non-ti-scordar-di-mé). Infine nell’ambito della frase l’a. contribuisce con l’intonazione ad individuare le unità cui si vuol dare un’enfasi particolare (es. io l’ho visto). Riguardo alla tipologia di comparsa dell’a. nella parola, si può distinguere fra a. fisso, quando interessa sempre la stessa sillaba, come l’ultima in francese, e a. libero, come nel caso dell’italiano in cui l’a. può cadere su qualsiasi sillaba fino alla quintultima. In parole polisillabe si distinguono inoltre un a. principale ed uno o più secondari (es. âscensòre).

 

ACCORDO. Corrispondenza formale (generalmente espressa da una desinenza) fra due o più unità linguistiche che intrattengono uno specifico rapporto sintagmatico (“tu dormi che ti colse agevol sonno nelle tue quete stanze”). L’a. riguarda anche la selezione, da parte del parlante, di specifiche forme (nell’esempio tu, ti, tue in a. con la seconda persona verbale dormi). v. numero, genere, caso, persona.

 

ADEGUATEZZA. Verifica della giustezza delle ipotesi sulla struttura linguistica, sia nella fase dell’apprendimento di una lingua, sia nella formulazione di una teoria grammaticale.

 

ADSTRÀTO. v. contatto linguistico.

 

AFASÌA. Disturbo nella produzione linguistica determinato da lesioni cerebrali di varia natura. Due tipi principali di a. sono stati ricondotti da Jakobson alle dimensioni paradigmatica, o della selezione, e sintagmatica, o della combinazione. Nel primo caso l’afasico conserva inalterata la sintassi, ma trova difficoltà nella scelta delle espressioni linguistiche adeguate al contesto (un caso banale è riconoscibile anche a livelli non patologici nell’impiego di coso, cosa, cosare per tutte le designazioni possibili); nel secondo caso, le scelte lessicali sono possibili, ma l’ammalato non riesce a combinare le parole per esprimere il messaggio (per cui si verificano fenomeni descrivibili sinteticamente con l’etichetta del parlare telegrafico).

 

AFÈRESI. Fenomeno fonetico consistente nella caduta della vocale iniziale di una parola: es. Spagna da Hispania, spedale ri­spetto a ospedale.

 

AFFISSO. Classe di morfemi in cui rientrano, a seconda della loro posizione rispetto alla radice, i prefissi, gli infissi e i suffissi.

 

AFFRICATO. Modo di articolazione consistente nel far seguire ad un’occlusiva una fricativa realizzata nello stesso luogo di articolazione: es. [tς] iniziale in cena o [dζ] in gelo, [ts] in azione o [dz] in razzo. Pur avendo un’articolazione complessa, l’a. funziona fonologicamente come un unico fonema. In italiano le a. in posizione intervocalica sono sempre realizzate come intense.

 

AGGETTIVO. “Chiare, fresche, dolci acque...” L’a. non ha il potere di identificare oggetti, ma concorre, unendosi al sostantivo, alla descrizione degli oggetti identificati da questo. La descrizione può avvenire secondo due modalità semantiche: 1) specificativa, come quando dicendo la foglia verde si assume che esistano foglie di diversi colori e si specifica quella a cui ci si riferisce; 2) esplicativa, come quando dicendo la verde foglia si riconosce in “verde” una qualità caratteristica della foglia. Nella sua funzione di specificare e determinare la referenza del sostantivo, l’a. può atteggiarsi oltre che come attributo anche come predicato: la foglia è verde. Per questo motivo in alcune teorie linguistiche l’a. è assimilato al verbo (l’uomo è mortale = l’uomo muore). La necessaria unione semantica di sostantivo e a. è il fondamento, in certe lingue, del fenomeno dell’accordo.

 

AGGLUTINANTE. Nella classificazione tipologica sono definite a. le lingue che ricorrono, per esprimere le relazioni morfologiche e sintattiche o per determinare ulteriormente il significato di un lessema, a combinazioni di elementi che possono comparire anche come forme libere e che nelle diverse combinazioni conservano il loro specifico valore semantico (ad es. “singolare”, “plurale”, “provenienza”, “stato”, “possesso di prima persona” ecc.) La parola ungherese kertekben si analizza come kert “giardin-” / ek “plurale” / ben “dentro” e vale “nei giardini”; la parola turca odalarimdan si analizza come oda “stanza / lar “plurale” / im “possesso di prima persona” / dan “provenienza” e vale “dalle mie stanze”. Nelle lingue a. (a differenza di quanto avviene nelle lingue flessive) è sempre possibile riconoscere i limiti segmentali dei monemi.

 

ALBERO. Grafo che permette di rappresentare i rapporti di parentela di diverse lingue (specialmente indeuropee) visualizzando nel tronco la lingua madree nelle biforcazioni dei rami il momento di distacco delle lingue storiche dalle cosiddette unità intermedie di età preistorica ( = a. genealogico). Nella grammatica generariva l’a. rappresenta diagrammaticamente i rapporti delle parole derivanti dall’applicazione delle regole di riscrittura.

 

ALFABETICO. Detto di una scrittura in cui i grafemi riproducono le unità del livello fonologico. Il nome deriva dalle due prime lettere dell’alfabeto greco (alfa e beta). L’ordine della serie alfabetica continua a riprodurre per grosse linee quello greco, che a sua volta riproduce quello fenicio da cui deriva. La rappresentazione del sistema fonologico è imperfetta negli alfabeti storici, data la presenza di segni polivalenti (si pensi all’ortografia italiana nella quale c vale per l’occlusiva velare sorda e per la corrispondente affricata, g vale per l’occlusiva velare sonora e per la corrispondente affricata, mentre per le occlusive velari sorda e sonora davanti a vocale palatale si fa uso dei digrammi ch e gh; tali incongruenze sono dovute alla conservazione di grafie storiche (come nel caso di cuore che riproduce il grafema iniziale del latino cor) e in ogni caso al carattere statico del sistema grafico, che non viene di solito adeguato a rappresentare i mutamenti fonetici sopravvenuti nella storia della lingua. Allo scopo di superare tali difficoltà la linguistica fa uso di alfabeti fonetici, in cui ogni segno grafico rappresenta un suono ed uno solo (es. l’Alfabeto Fonetico Internazionale - sigla API).

 

ALFABETO FONETICO INTERNAZIONALE. Sistema di trascrizione elaborato intorno agli anni trenta dall’Association Phonétique Internationale (da cui la sigla API per designare l’A. stesso), con l’intento di rappresentare con un grafema univoco ogni diverso suono linguistico. La trascrizione in API dell’italiano è relativamente vicina all’ortografia storica, con le seguenti particolarità: [ε] indica la e aperta (come in gente, piede); [o] indica la o aperta (come in donna, cuore); [s] indica la s sorda (come in sole, casa); [z] indica la s sonora (come in rosa, uso); [ς] indica la s palatale (come in scendere, lasciare); [η] indica la n palatale (come in sogno, gnocco); [λ] indica la l palatale (come in famiglia). I suoni affricati sono rappresentati da digrammi: [ts] corrisponde a z sorda (come in zitto, ozio); [dz] corrisponde a z sonora (come in zero, razzo); [tς ] corrisponde a c palatale (come in cena, cencio); [dζ] corrisponde a g palatale (come in giro, gengiva). Il segno diacritico [:] posto dopo una vocale ne indica l’articolazione lunga; l’accento è indicato da un apice (’) posto prima della sillaba accentata.

 

ALLITTERAZIONE. “Se non sarà seren si rasserenerà”. Ripetizione della medesima consonante all’inizio di parole vicine; è la figura fonostilistica speculare rispetto alla rima, usata in certe tradizioni poetiche, ad esempio in quella germanica.

 

ALLÒFONO. Nome con cui si indica la variante fonologica.

 

ALLÒGRAFO. Variante di un grafema.

 

ALLOMÒRFO. Variante di un morfema.

 

ALTERNANZA. Variazione nella forma di un’unità linguistica (lessema o morfema) a cui è associata una funzione distintiva. C’è a. della radice verbale in ved-o (presente) rispetto a vid-i (passato), ma anche in faccio - feci; odo - udiamo, devo - dobbiamo ecc. Come si vede dagli esempi l’a. consiste nel variare della porzione vocalica, ma anche di quella consonantica. Un’a. in un morfema si può riconoscere dal confronto fra -tore e -trice, in cui il suffisso femminile, oltre ad essere marcato dall’elemento -ice, è privo della vocale fra t e r.

 

ANÀFORA. “La sventurata rispose”. Qualunque espressione linguistica che in un testo riprende un’altra espressione che la precede, in modo tale che il termine anaforico può essere interpretato solo a partire da questa espressione richiamata (es. me ne ha parlato, ci andrò ecc.). L’a. è uno strumento essenziale della coesione di un testo, che è tenuto insieme da una rete fittissima di richiami interni. Se in un testo si è parlato di Pinocchio, i mezzi linguistici per richiamarlo, cioè le a., sono molteplici: il burattino, quel monello, il nostro eroe, i pronomi ( = sostituzioni), e naturalmente Pinocchio (= ripetizione). Tutti questi elementi linguistici sono collegati dalla coreferenza, cioè dal fatto di designare la stessa cosa. Tuttavia intesa in senso generale l’a. può andare oltre la sua manifestazione nominale o pronominale, se si considerano anaforici tutti quei tratti che in un testo, per forma o per contenuto, richiamano o riproducono qualcosa che si è manifestata in precedenza. La rima e l’allitterazione sono pertanto a. formali; l’uso, d’altra parte, di una terminologia tecnica in un testo scientifico fa sì che ogni elemento così marcato funzioni come a. (contenutistica) dei precedenti e manifesti la coerenza del testo.

 

ANALISI LOGICA. v. funzioni sintattiche.

 

ANALOGIA. Tendenza delle unità linguistiche a costituirsi in paradigmi formalmente regolari. Si manifesta essenzialmente in due modi: 1) livellamento delle forme di uno stesso paradigma: sing. cuoco plur. cuochi (e non cuoci), ma si pensi alla forma non analogica amici rispetto ad amico; 2) livellamento di forme di paradigmi diversi. Si consideri in italiano il caso delle forme verbali ho, do, sto, so (ed anche i toscani vo, fo) che derivano da forme latine in parte diverse fra loro (habeo, do, sto, sapio, vado, facio), che si sono influenzate reciprocamente, andando a costituire un paradigma di presenti monosillabici. L’a. va vista in ogni caso come una manifestazione dell’analisi continua cui i parlanti sottopongono il sistema linguistico, e rivela che l’analisi può variare da epoca ad epoca. In questo senso l’a. genera non tanto errori, quanto nuove regolarità. Dinamica e sistematica l’a. rappresenta il punto d’incontro della sincronia con la diacronia.

 

ANTÒNIMO. Lessema che ha un significato opposto a quello di un altro lessema: es. caldo-freddo; grande-piccolo; alto-basso ecc. Di solito gli a. rappresentano i termini di un’opposizione semantica graduale. Più rari sono casi in cui gli a. stanno in opposizione privativa.

 

ANTROPÒNIMO. Nome proprio di persona. v. anche onomastica.

 

APERTO. 1) Si dice, con riferimento alle vocali, di quelle che vengono realizzate con un angolo intermascellare maggiore rispetto ad altre, che vengono dette chiuse. La vocale di massima apertura è la [a], quelle di apertura minima sono [i] ed [u]. 2) Detto di sillaba indica che finisce per vocale (sillabe a.: ba, te; sillabe chiuse: bar, tel).

 

APOFONÌA. Nome che si dà all’alternanza vocalica presente nella radice e nei suffissi di lingue indeuropee antiche con funzione morfologica o semantica (es. tego “io copro” - toga “ciò che copre” = il vestito).

 

APPELLO. Funzione universale dell’atto linguistico centrata sull’interlocutore. La funzione di a. è manifestata dalla presenza sia di particolari categorie linguistiche (pronomi di seconda persona e relative forme verbali, modo imperativo ecc.) sia da fatti prosodici quali l’intonazione interrogativa, o la durata enfatica di certe sillabe tipica del richiamo (v. prosodia).

 

APPOSIZIONE. v. funzioni sintattiche.

 

APPROPRIATEZZA. L’insieme delle condizioni che devono essere soddisfatte perché l’atto linguistico sortisca il suo effetto, in quanto risulta adeguato al contesto in cui viene prodotto ed alle presupposizioni comunicative degli interlocutori. Ad esempio la risposta grazie in relazione all’offerta di qualcosa, non è appropriata in un contesto tedesco se si vuole accettare l’offerta (corrisponde infatti a un rifiuto), mentre lo è in un contesto italiano.

 

ARBITRARIETÀ. “Ma come un gallo può chiamasse un cocco (= francese coq) / si er cocco ar monno è un ovo de gallina!” (Belli). Nel segno linguistico l’a. caratterizza il rapporto fra significante e significato, che non risulta motivato nella realtà. L’a. spiega la diversità fra le lingue, è strettamente connessa con il carattere convenzionale della lingua e con la sua organizzazione sistematica (v. a. relativa). Dall’arbitrarietà dipende anche una doppia tendenza: la mutabilità dei segni ed insieme la loro persistenza nel tempo (non c’è infatti alcun motivo né per conservare un segno né per cambiarlo). Sembrano contraddire il carattere arbitrario dei segni le onomatopee che tuttavia sono diverse fra lingua e lingua e costituiscono un aspetto marginale e statisticamente trascurabile.

 

ARBITRARIETÀ RELATIVA. Salumiere/ salume/ sale; droghiere/ .../ droga; .../ sudiciume/ sudicio. Saussure chiama a. r. il superamento parziale del carattere immotivato del segno mediante l’associazione formale e concettuale con altri segni del sistema linguistico. diciannove è relativamente motivato grazie al riferimento a dieci e nove, mentre dieci e nove sono del tutto arbitrari, come lo sono sale, droga, sudicio. L’a. r. è un aspetto essenziale per il funzionamento dei sistemi linguistici. v. articolazione (doppia a.), economia.

 

ARCAISMO. Elemento lessicale che si caratterizza per la sua originaria appartenenza ad uno stadio storico della lingua precedente quello in cui viene usato. Gli a. della lingua italiana connotano registri elevati o linguaggi settoriali (si pensi a termini come cimento, disfida, non infrequenti nella lingua dello sport).

 

ARCIFONEMA. In fonologia si indica con a. quell’unità fonologica che compare nelle posizioni di neutralizzazione, rappresentando in tal modo entrambi i termini dell’opposizione. Così in italiano l’opposizione di apertura è neutralizzata in sillaba atona (cfr. pescheto, pescoso con a. /e/ rispetto a pesca con /ε/ aperto e pesca con /e/ chiuso).

 

ARTICOLAZIONE. La produzione del suono linguistico da parte degli organi dell’apparato di fonazione. Per la descrizione del suono da un punto di vista articolatorio si terrà conto degli organi articolatori attivi (es. lingua, labbro superiore ecc.), del luogo nel quale essi formano un diaframma (palato, denti) e infine del modo in cui la corrente d’aria portatrice del suono è ulteriormente modificata dall’intervento di altri fattori (vibrazioni delle corde vocali, risonanza nasale). In fonologia i tratti distintivi vengono spesso descritti in base a parametri articolatori (es. tratto di nasalità, di sonorità, di occlusività ecc.).

 

ARTICOLAZIONE (DOPPIA A.). [Gli]-[element]-[i] -[lingu]-[ist]-[ic]-[i]-[sono]-[ri]-[cors]-[iv]-[i]-[e]-[ri]-[conosc]-[ibil]-[i]. È il principio per cui qualsiasi enunciato è segmentabile: 1) in elementi minimi dotati di valore semantico o grammaticale (monemi, unità di prima a.) e questi a loro volta 2) in elementi minimi dotati di capacità distintiva (fonemi, unità di seconda articolazione): [λ]-[i]-[e]-[l]-[e]-[m]-[e]-[n]-[t]-[i]- ... I monemi ed i fonemi sono in numero limitato (v. economia) e ricorrono in combinazioni teoricamente illimitate. Fonemi e monemi sono unità di scelta (v. selezione e combinazione).

 

ARTICOLO. “K. Marx: Il Capitale; I. Calvino: Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Categoria linguistica non universale, usata in certe lingue per specificare o generalizzare la referenza di un sostantivo. In italiano esistono due a.: l’a. cosiddetto indeterminativo e l’a. determinativo (un uomo / l’uomo). Da un punto di vista semantico il tipo “un” corrisponde al processo cognitivo che in una categoria (ad esempio la classe “uomo”) riconosce un membro particolare (“un uomo” in quanto singolo individuo). Il tipo “il” corrisponde al processo inverso, che in ogni singolo individuo riconosce un membro della categoria generale. Nei trattati scientifici perciò comparirà sempre l’espressione il cane (generalizzazione), mentre in un racconto potremo trovare la storia di un cane (particolarizzazione). L’opposizione nel metalinguaggio fra “determinativo” e “indeterminativo” sembrerebbe dipendere dalla situazione di discorso, in cui il funziona come deittico (v. deissi), e quindi “determina” con precisione la referenza (il gatto è scappato = “il gatto che io e tu che mi ascolti qui ed ora conosciamo”).

 

ASPETTO. Categoria verbale mediante la quale il soggetto parlante presenta l’azione espressa dal verbo non in rapporto al tempo, ma a determinate caratteristiche di svolgimento. In tal senso l’a. può essere perfettivo se l’azione è rappresentata come circoscritta; es. l’anno scorso sono stato in Inghilterra (= per un periodo di tempo determinato). Può essere invece imperfettivo se l’azione è rappresentata come non circoscritta; es. l’anno scorso ero in Inghilterra (= per tutto l’anno, o per un tempo non precisato). L’azione del verbo può essere rappresentata anche come compiuta nel momento in cui si parla, ma tale che i suoi effetti sono presenti; es. sono arrivato (e sono qui), ero arrivato ecc. Può essere invece presentata come incompiuta, e quindi svolgentesi nel momento di cui si parla; es. leggo il giornale (e non ho ancora finito), leggevo il giornale ecc. La prima delle due opposizioni di a. è espressa da particolari paradigmi di desinenze nelle lingue slave. La seconda è alla base di opposizioni di temi verbali in greco classico. Altre modalità dell’aspetto, definibili anche come “tipi di azione”, sono rivelate da opposizioni lessicali: incoativo ~ permansivo: prendere/tenere (il primo verbo rappresenta l’azione nel suo inizio, il secondo nel suo svolgimento); uniforme ~ intermittente: volare/svolazzare; momentaneo ~ durativo: vedere/guardare, sentire/ascoltare.

 

ASSIMILAZIONE. Mutamento di un fonema causato dalla presenza di un fonema vicino che trasmette al primo uno o più dei propri tratti distintivi. L’a. può essere totale, come nella parola attore dal latino actor, in cui l’occlusiva dentale /t/ si è assimilata completamente la velare che la precede (trasmissione del tratto di dentalità), o parziale, come nella parola contatto da cum tactum in cui /t/ trasmette il tratto di dentalità ma non quello di occlusività. Quando il fonema seguente trasmette i propri tratti al fonema precedente parliamo di assimilazione regressiva (cfr. i casi citati) nel caso contrario di a. progressiva (es. giallo dal francese jalne). Fenomeno opposto all’a. è la dissimilazione (v.).

 

ATLANTE LINGUISTICO. Rappresentazione cartografica della varietà diatopica, ottenuta mediante registrazione su vari punti di una carta geografica dei dati linguistici acquisiti mediante un’inchiesta in loco. Ogni carta dell’a. l. è, di solito, dedicata a una parola di uso molto generale, o ad una frase semplice o a termini tecnici di solito connessi con l’agricoltura o con le attività domestiche. Un a.l. completo del territorio italiano è stato realizzato, nei primi anni del nostro secolo, dagli studiosi svizzeri Jaberg e Jud. La lettura delle carte di un a.l. permette di scoprire vari fenomeni di natura storico-linguistica: antichità relativa delle parole e loro diffusione areale, conflitti fra termini omofoni e sostituzione di uno di essi, formazione o modificazione di parole ad opera dei parlanti (v. etimologia popolare).

 

ATTANTI. v. funzioni sintattiche.

 

ATTIVO. v. diatesi.

 

ATTO LINGUISTICO. La teoria dell’a.l. vuole contestare l’idea che la lingua venga usata solo per la descrizione del mondo; essa sarebbe invece usata anche in azioni linguistiche, o “giochi”, naturalmente governati da regole. Esempi di questi “giochi” fra i tanti possibili, sono: inventare e raccontare una storia, proporre un indovinello, cantare in coro ecc., tutte operazioni fatte mediante il linguaggio. Nell’ambito di un tentativo di classificazione delle diverse possibili azioni linguistiche, Austin identificò un tipo di espressioni dette performative, distinte dalle “constative” (descrittive ed affermative). Successivamente egli, sulla base della convinzione che tutte le espressioni linguistiche sono azioni, distinse tre diversi piani nell’ambito di ogni a.l: l’a. locutivo (consiste nel dire qualcosa); l’a. illocutivo (consiste nell’eseguire un’azione dicendo qualcosa: prometto, ordino, invito); l’a. perlocutivo, cioè un terzo tipo di azione linguistica che è la conseguenza degli atti locutivi e illocutivi prodotti (consiste nel provocare un effetto sui sentimenti, pensieri o azioni dell’interlocutore, o di altre persone, o anche del parlante: ad esempio “consolare”, “persuadere” “commuover(si)” ecc.). La teoria degli a.l., variamente rielaborata, è uno dei fondamenti della moderna pragmatica.

 

ATTRIBUTO. v. funzioni sintattiche.

 

AUSILIARE. “Andava combattendo ed era morto”. Classe di lessemi verbali la cui funzione non è di predicazione, ma consiste nell’espressione di alcune categorie non manifestate dal verbo al quale si uniscono. Es. ho mangiato, sono partito (tempo); potrei dire, devo sentire (modo); sto per dire, vado dicendo (aspetto); è stato ucciso, viene portato via (diatesi).

 

AUTOMATISMI VERBALI. Nella glottodidattica ispirata al comportamentismo si intendono le risposte linguistiche a determinati stimoli che si possono considerare come prevedibili (si pensi alle situazioni standardizzate domanda-risposta, al passaggio dal singolare al plurale ecc.).

 

AVVERBIO. Il fatto che l’a. modifichi il significato espresso da verbi ed aggettivi indica la sua pertinenza nella parte predicativa dell’enunciato, cioè in quella in cui, con un verbo o con un aggettivo, si dice qualcosa di ciò che si è nominato (i cavalli / corrono <-- molto: i cavalli / sono molto --> veloci).

 

BASE DI COMPARAZIONE. In fonologia si indica con questo termine l’insieme dei tratti distintivi comuni ai fonemi in opposizione: ad esempio nell’opposizone /p/ ~ /t/ ~ /k/ la b. di e. è data dai tratti occlusivo e sordo.

 

BILINGUISMO. La compresenza di due lingue diverse nel repertorio di una comunità, o di un gruppo, o di un singolo parlante. A rigore non esiste b. perfetto, in quanto una delle due lingue risulta dominante. Non sono rari i casi, soprattutto in aree extraeuropee, di plurilinguismo. In Italia una situazione di b.si verifica in Alto Adige (tedesco, lingua dominante e italiano); in alcune valli dolomitiche è possibile parlare di plurilinguismo (ladino, lingua dominante, tedesco e italiano).

 

BINARISMO. Teoria di Jakobson secondo cui ciascun fonema è percepito come una successione di decisioni sì/no per ognuno dei tratti distintivi del complesso di tratti che lo costituiscono. Ad esempio il fonema italiano /b/ può essere descritto per mezzo delle seguenti qualità percepite: [consonantico +] [occlusivo +] [sonoro +] [nasale -] ecc. (i + e i - corrispondono alle decisioni sì/no, nel senso che /b/ è caratterizzata anche dal fatto di essere non nasale). Jakobson ha identificato 12 opposizioni binarie che ritiene universali in quanto tutte le lingue sceglierebbero all’interno di esse le loro opposizioni. Per il sistema fonologico italiano sembrano valere le 8 opposizioni seguenti: vocalico/ consonantico; compatto/diffuso (parametro acustico, distingue /a/ da /i/, ma anche /k/ da /t/); grave/acuto (altro parametro acustico, distingue /o/ da /i/ ma anche /p/ da /t/); teso/rilasciato (distingue /e/ chiusa da /ε/ aperta, /o/ chiusa da /o/ aperta); nasale/orale (distingue /m/ ed /n/ da /b/ e /d/); discontinuo/ continuo (distingue /p/, /b/ da /f/, /v/); sonoro/sordo; stridulo/morbido (distingue l’affricata sorda /ts/ da /t/ e /dζ/ da /d/).

 

BREVITÀ. Tratto distintivo di un’opposizione vocalica in cui sia pertinente la durata articolatoria. /a/ breve opposta ad /a:/ lunga.

 

CALCO. Neologismo che riproduce la struttura della parola straniera che traduce: sottosviluppato = underdeveloped, guerra-lampo = Blitz Krieg. Il c. può essere inteso come un forma di prestito.

 

CAMPO SEMANTICO. La nozione di c.s. si basa sulla constatazione che nel lessico di una lingua alcune parole intrattengono rapporti particolarmente stretti, tali che la definizione semantica di una dipende direttamente da quella delle altre parole del gruppo. Ad esempio nel c.s. dei nomi di parentela il termine madre implica nella sua definizione quelle di padre e figlio; cognato implica fratello, moglie, marito ecc. L’organizzazione dei c.s. non è universale ma corrisponde alle segmentazioni culturali della realtà manifestata dalle singole lingue. In latino, ad esempio, patruus designa lo “zio paterno” e si contrappone ad avunculus “zio materno”, mentre in italiano l’unico termine zio ricopre e confonde le due possibilità. L’appartenenza di parole ad un c.s. implica che esse abbiano certi tratti semantici in comune (v. sema) ed altri in opposizione. La difficoltà di formalizzare i rapporti delle parole in un c.s. ha indotto ad identificare come appartenenti allo stesso c.s. solo quei termini che possono comparire negli stessi contesti di frase, senza procedere ad una loro scomposizione in tratti semantici minimi; es. sono andato a lavorare in [ufficio / fabbrica / campagna / scuola ecc]. v. significato.

 

CASO. Categoria grammaticale, manifestata nella declinazione, che esprime i rapporti sintattici del nome. Per le fasi antiche dell’indeuropeo si ricostruiscono otto c.: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, strumentale, locativo, ablativo, vocativo. L’italiano, che ha perso la declinazione, manifesta la funzione sintattica dei c. con la posizione delle parole (Mario vede Maria), o con l’uso di preposizioni (vado a casa, la porta di casa ecc.). Tracce della situazione precedente rimangono tuttavia in alcune classi lessicali, come i pronomi, che conservano tre forme flesse: io, tu / mi, ti / me, te. Va sottolineato il carattere puramente relazionale della categoria del c., che la distingue in parte dalle altre categorie del nome (genere e numero) che hanno implicazioni semantico-referenziali. Si è tuttavia cercato di individuare un antico contenuto semantico dei c. vedendoli come determinazioni spaziali (accusativo = avvicinamento a un lungo, ablativo = allontanamento da un luogo). Un’ulteriore interpretazione semantica dei c. è quella di Fillmore che concepisce i c. come determinazioni semantiche profonde, soggiacenti alle strutture superficiali. Così nella frase il martello ha rotto il vetro si riconoscono due c. profondi: l’oggetto, cioè la cosa implicata (il vetro) e lo strumentale, cioè la cosa con cui si compie l’azione (il martello). Nella frase Chicago è umida Fillmore riconosce il c. profondo locativo (cioè “a Chicago è umido”). I c. profondi sarebbero universali.

 

CATÀFORA. “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Montale). Qualunque espressione linguistica che in un testo anticipa un’altra che la segue, stando con essa in rapporto di coreferenza. E il contrario dell’anafora.

 

CATEGORIA GRAMMATICALE. Corrisponde ad un paradigma di forme linguistiche raggruppate in base alla loro funzione o al loro significato. Es. la c. del genere, numero, caso, tempo...; la c. del diminutivo ecc. Rispetto alle parti del discorso, le c.g., pur corrispondendo anch’esse a classificazioni tradizionali, possono essere definite con maggiore precisione. Tuttavia, neppure le c.g. sono universali.

 

CATENA. Successione lineare di elementi. c. linguistica: lo stesso che sintagma nel suo senso generale. La c. parlata è responsabile di fenomeni fonetici generali, quali assimilazione, dissimilazione, elisione. Per l’analisi della catena v. segmentazione.

 

CHIUSO. Modo di articolazione delle vocali che costituisce l’opposto estremo di quello aperto. Detto di sillaba indica che essa finisce per consonante.

 

CIRCOSTANTI. v. funzioni sintattiche.

 

CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE. “Dopo Babele.” Si distinguono tre tipi fondamentali di c.: 1) quella genealogica che si basa sull’ipotesi di un’origine comune di due o più lingue che presentino somiglianze di forma e di contenuto negli ambiti della grammatica e del lessico; 2) quella tipologica mediante la quale si raggruppano lingue che presentano grammatiche organizzate nello stesso modo, o che almeno concordano in qualche tratto strutturale assunto come tipico; 3) quella etnolinguistica nella quale sono pertinenti per il raggruppamento elementi extralinguistici soprattutto etnologici, e più in generale coincidenze di ordine storico-culturale. In rapporto al primo tipo di c. è possibile parlare di lingue indeuropee, camito-semitiche, uralo-altaiche ecc. (v. comparativismo, parentela, lingua madre, ricostruzione). Al secondo tipo di c. appartengono i concetti di isolante, agglutinante, flessivo che si riferiscono al piano della morfologia, o gli schemi S(oggetto) O(ggetto) V(erbo), SVO, VSO riferiti all’ordine basico di successione di questi tre costituenti (altri criteri riguardano la sintassi del verbo, o altri parametri linguistici quali il grado di sintesi). Al terzo tipo di c. infine sono riportabili concetti come quelli di lingue europee (ed extraeuropee), lingue asiatiche, lingue amerindiane; lingue classiche (greco, latino); lingue creole ecc.

 

CLIC. Suono linguistico caratterizzato dal fatto che il flusso d’aria che lo produce è ingressivo, corrisponde cioè ad una inspirazione. Esempi di c. nell’uso di parlanti italiani si hanno in forme onomatopeiche come quella che riproduce il trotto del cavallo, o in fonosimboli, come nel caso del c. dentale che indica il diniego, o nel c. labiale che rappresenta il bacio.

 

CODICE. “Non si capisce niente: parla in codice”. Insieme precostituito delle regole che consentono ad un emittente di trasmettere un messaggio ad un ricevente. La produzione del messaggio consiste in una codifica, la comprensione di una decodifica. Le lingue sono c. primari; le scritture sono c. secondari. Da un punto di vista sociolinguistico il c. corrisponde alla lingua standard, i sottocodici a lingue tecniche e settoriali. Es. portiere: nel c. vale “guardiano di un palazzo”, nel sottocodice sportivo del calcio “giocatore che difende la porta”.

 

CODIFICAZIONE~DECODIFICAZIONE. Nella teoria della comunicazione e in glottodidattica, si intende la capacità di produrre ed interpretare messaggi in una data lingua.

 

COERENZA TESTUALE. “Alle sette è cominciato lo sciopero. La sveglia non ha suonato e per di più ieri ero andato a teatro: ecco perché ho preso la macchina.” Ciò che fa di un testo un testo. Vari fattori contribuiscono alla c. di un testo, facendo sì che esso possa intuitivamente essere riconosciuto come tale. Sembrano determinanti fra gli altri i collegamenti lessicali (presenza in una successione di enunciati di parole appartenenti alla stessa sfera semantica o a sfere semantiche omogenee: nell’esempio alle sette... la sveglia); i collegamenti enciclopedici (cioè la presenza di riferimenti impliciti al sapere extralinguistico comune: nell’esempio a teatro, con allusione al fatto che, come tutti sanno, gli spettacoli si svolgono di sera): l’ordinamento gerarchico degli enunciati (cioè la presenza di un enunciato introduttivo o riassuntivo: nell’esempio ecco perché...); il contesto pragmatico (cioè la particolare situazione in cui si realizza il discorso, comprendente il luogo, il tempo e gli interlocutori). Nel nostro esempio il testo permette il collegamento coerente fra una serie di termini appartenenti alla sfera oraria ed altri designanti mezzi di trasporto (si noti come il termine sciopero sia interpretabile come “sciopero degli addetti ai trasporti pubblici” in quanto la frase riassuntiva esplicita che il testo contiene una giustificazione per l’uso dell’automobile).

 

COESIONE TESTUALE. Il risultato del concorrere di vari fattori per il collegamento di una sequenza di enunciati in un testo. Elementi della c. sono i fenomeni di coreferenza, come le ripetizioni, le pronominalizzazioni e le proforme (v. anafora). Altre manifestazioni della c. possono riconoscersi nel ricorso alle parafrasi, alle perifrasi (per designare in modo diverso cose già dette), nell’uso di antonimi, iperonimi ed iponimi (in quanto appartenenti allo stesso campo semantico). Sul piano tematico la c. è data dai legami associativi fra concetti espressi nel testo (es. un libro di “cucina”, un discorso “politico” ecc.)

 

COLLETTIVO. Parola che ha come referente oggetti (persone o cose) che si manifestano, naturalmente o istituzionalmente, come pluralità: gente, fogliame ecc. Da un punto di vista morfologico i c. sono di solito dei singolari, anche se in certi casi essi derivano da forme di neutro plurale (es. frutta). Suffissi di c. sono -eto/-eta (frutteto, pineta), -ame/-ime/-ume (bestiame, mangime, sudiciume), -aglia/-iglia (ragazzaglia, fanghiglia), tutti riconoscibili in neutri latini, singolari o plurali.

 

COLLOCAZIONE. Regola sintattica relativa all’ordine delle parole: v. costruzione.

 

COMBINATORIO. Mutamento fonetico sia sincronico sia diacronico condizionato dal contesto fonetico in cui si trova il suono che muta. Variante c.: realizzazione di un fonema determinata dal contesto.

 

COMBINAZIONE. v. selezione e combinazione.

 

COMMUTAZIONE. Procedimento mediante il quale, operando su coppie minime, si verifica la funzione distintiva di un suono linguistico, cioè il suo carattere di fonema. Ad esempio la sostituzione di /p/ a /d/ nella sequenza [/ca/ /o] e viceversa determina in ambedue i casi diversi significati, per cui si può dire che /p/ e /d/ sono fonemi in quanto svolgono una funzione distintiva al livello superiore (capo ~ cado).

 

COMPARATIVISMO. Consiste nel confronto sistematico di due o più lingue con lo scopo di mostrarne l’origine comune. Il c. si occupa soprattutto delle corrispondenze fonetiche regolari (leggi fonetiche) che permettono di stabilire in che modo ciascuna lingua figlia si è diversificata rispetto alla lingua madre.

 

COMPETENZA. Sistema di regole generali che il parlante nativo ha interiorizzato nel corso dell’apprendimento della lingua e che gli permette di formulare giudizi sulla grammaticalità, sul significato e sulle differenze fonologicamente pertinenti degli enunciati. La nozione di c. è usata nella grammatica generativa.

 

COMPETENZA COMUNICATIVA. “Non parlare di corda in casa dell’impiccato”. In pragmatica è l’insieme delle conoscenze che permettono di realizzare l’appropriatezza di un messaggio in un contesto particolare (ad esempio come parlare con un bambino, in una situazione formale, come scrivere un telegramma ecc.)

 

COMPETENZA TESTUALE. Conoscenze e abilità che stanno alla base della produzione e della comprensione di un testo. Implica capacità cognitive, linguistiche e generalmente comunicative. La c.t. è quella che ci permette di dare il titolo ad un testo, di riassumerlo, di svolgere un discorso su un tema proposto ecc.

 

COMPLEMENTO. v. funzioni sintattiche.

 

COMPONENTE. Nella grammatica generativa di Chomsky si identificano tre c.: 1) il c.sintattico, a sua volta diviso in sottocomponente di base che determina le regole di riscrittura, e sottocomponente trasformazionale che determina le regole di trasformazione; 2) c. semantico che determina le regole per l’interpretazione semantica della struttura profonda; 3) c. fonologico che determina le regole per l’interpretazione fonetica della struttura superficiale. Del sottocomponente di base fa parte anche il lessico, dotato di proprietà sintattiche, semantiche e fonologiche.

 

COMPORTAMENTISMO. Orientamento psicologico nella linguistica descrittiva americana (Bloomfield) basato sull’opinione che ogni atto linguistico sia una risposta (r) ad uno stimolo (S) extralinguistico. Ad esempio una persona ha freddo (=S) e reagisce linguisticamente con la frase chiudi la finestra (=r) rivolta a qualcuno che le sta vicino. La risposta linguistica diventa a sua volta stimolo (s) per ulteriori comportamenti, linguistici e non linguistici: es. chiudila tu (=r), oppure perché? (= r), oppure l’atto di chiudere la finestra (= R). In questa prospettiva il significato di un atto linguistico è riconoscibile nell’insieme degli eventi pratici cui esso è connesso (nell’esempio: stimolo del freddo e reazione di chiudere la finestra = S --> R). Secondo la teoria comportamentista la lingua (r --> s) colma in questo modo la distanza fra gli individui (discontinuità della struttura sociale) e si manifesta perciò come un segmento di collegamento fra parlante ed ascoltatore. Gli elementi linguistici (fonemi, morfemi, parole ecc.) sono quindi concepiti come segmenti, e la struttura linguistica è vista in una dimensione lineare (v. segmentazione), con una prospettiva molto diversa dallo strutturalismo funzionalista europeo che opera invece con i livelli.

 

COMPOSIZIONE. Procedimento di formazione delle parole consistente nell’unione di due o più forme che compaiono anche autonomamente (v. parola): es. tritacarne, turbodiesel, automobile. Questa caratteristica distingue la c. dalla derivazione, in cui prefissi e suffissi, uniti alla radice, sono forme legate. Non è tuttavia facilmente individuabile il limite fra i due procedimenti, poiché la funzione del primo elemento del sintagma (prefisso o prima parola del composto) è instabile: ci sono infatti parole che tendono a funzionare come prefissi (si pensi a mondovisione, rifatto su televisione, entrambi non molto lontani da revisione e previsione) e prefissi che vengono usati autonomamente come parole (super, extra, mini ecc.). Da un punto di vista semantico i composti possono essere distinti in copulativi, determinativi e possessivi. I composti copulativi consistono nell’addizione di due parole: ventiquattro, agrodolce, chiaroscuro. I composti determinativi consistono nell’unione di due membri, uno dei quali determina l’altro; tale determinazione può essere attributiva (biancospino, cavolfiore), casuale, quando uno dei due membri ha funzione di complemento (terremoto, portafogli), o avverbiale (beneamato, malfamato, semifreddo). Infine i composti possessivi si caratterizzano per essere “esocentrici”, nel senso che la qualità che essi predicano è riferita ad un termine esterno (barbanera, pieveloce, magnanimo = “che ha la barba nera” ecc.). I composti copulativi e determinativi sono invece “endocentrici, in quanto la qualità predicata riguarda entrambi i termini del composto o uno dei due (“che è agro e dolce”, “che porta i fogli” ecc.).

 

COMPOSTO. Elemento lessicale considerato come il prodotto di una composizione e caratterizzato da un solo accento principale: es. beneamàto.

 

COMUNICAZIONE. Trasmissione di un messaggio da un emittente ad un ricevente attraverso un canale, secondo un codice, ed in una determinata situazione (contesto). Jakobson fa corrispondere a questi 6 punti di vista altrettante funzioni: messaggio --> funzione poetica; emittente --> emotiva; ricevente --> conativa; canale --> fatica; codice--> metalinguistica; contesto --> denotativa.

 

CONATIVA. Funzione dell’atto linguistico centrata sull’ascoltatore. v. appello.

 

CONGIUNZIONE. Al di là delle due diverse funzioni sintattiche fondamentali (v. coordinazione, subordinazione), le c. hanno quella di introdurre nella linearità del discorso una serie di prospettive in rapporto alle diverse predicazioni in esso contenute. Es. Carlo e Giuseppe mangiano = Carlo mangia e Giuseppe mangia: le due azioni sono assolutamente sullo stesso piano; Carlo mangia se Giuseppe mangia: le due azioni non sono sullo stesso piano, ma l’una dipende dall’altra.

 

CONIUGAZIONE. Variazione della forma del verbo nelle lingue flessive. I morfemi di c. esprimono le categorie della persona, del numero, del tempo, del modo ecc., e si trovano di solito nella parte finale della forma verbale come suffissi e desinenze (am-av-o = suffisso di imperfetto; am-av-o = desinenza di la persona singolare). Variazioni del tema verbale erano frequenti nelle lingue indeuropee antiche, ad esempio in greco. In italiano sono presenti residui di questa situazione, come nel passato remoto di scrivere, in cui la la persona singolare e la 3a singolare e plurale continuano un tema verbale diverso da quello del presente (scriv-o ma scriss-i/-e/-ero = latino scripsi ecc.), mentre le forme delle altre persone (scriv-esti ecc.) sono frutto di analogia. Un aspetto più raro della c. è l’alternanza di radici diverse per la stessa designazione: vad-o, and-iamo ecc.

 

CONNOTAZIONE. v. significato.

 

CONSONANTE. Tipo di suono prodotto occludendo momentaneamente o restringendo il canale attraverso cui passa l’aria, mediate la costituzione di vari diaframmi realizzati da diversi organi articolatori. La presenza o l’assenza delle vibrazioni delle corde vocali distingue le c. in sorde ([p], [t], [k], [f ] ecc.) o sonore ([b], [d], [g], [v] ecc.). In riferimento al luogo di articolazione si distinguono labiali o bilabiali ([p], [b], [m]; labiodentali ([f ], [v]); dentali ([t], [d], [n], [s], [z], [ts], [dz], [l], [r]); palatali ([tς], [dζ], [ς], [η], [λ]); velari ([k], [g]); labiovelari ([kw], [gw]). Riguardo al modo di articolazione si distingueranno invece occlusive ([p], [b], [t], [d], [k], [g], [kw], [gw]); nasali ([m], [n], [η]); laterali ([l], [λ]); vibranti ([r]); fricative ([f], [v], [s], [z], [ς]; affricate ([ts], [dz], [tς], [dζ]), intense ([pp], [ll] ecc.). Per i simboli usati per la rappresentazione dei fonemi consonantici dell’italiano v. Alfabeto Fonetico Internazionale.

 

CONSONANTISMO. Il sistema consonantico di una lingua.

 

CONTATTO LINGUISTICO. Forma generale dell’interferenza fra due lingue, come conseguenza di un contatto più o meno prolungato dei popoli che le parlano. Il c.l. si manifesta secondo tre modalità alternative: 1) sostrato quando due popoli a contatto sono in rapporto di dominatore e dominato, e la lingua del popolo dominato cessa progressivamente di essere parlata, non senza lasciare numerose tracce fonetiche, morfologiche, lessicali, sintattiche nella lingua del popolo dominatore. Il sostrato prevede una fase di bilinguismo prolungato (un caso tipico di sostrato nei dialetti meridionali sono le forme di passato remoto facette, dicette, mettette che continuano il morfema di passato della lingua osca, parlata nell’Italia meridionale prima dell’affermazione del latino); 2) superstrato quando in una situazione di dominio temporaneo di un popolo sull’altro, la lingua del popolo dominatore non riesce ad affermarsi, ma lascia tracce, soprattutto di natura lessicale, nella lingua del popolo dominato (in italiano tracce della dominazione germanica sono parole come fiasco, guerra, bosco, mentre tracce della dominazione araba in Sicilia sono i toponimi Gibellina, Calatafimi, Caltagirone; v. onomastica); 3) adstrato quando il c.l. fra i due popoli è dovuto alla contiguità geografica e le lingue parlate in questa situazione si influenzano a vicenda. L’adstrato nella sua forma macroscopica determina la costituzione di leghe linguistiche.

 

CONTESTO. In senso lato tutto ciò che sta intorno ad un elemento linguistico (c. fonetico: le articolazioni che precedono o seguono un’articolazione data). In pragmatica corrisponde alla situazione di discorso. Nella linguistica testuale c. è l’insieme delle condizioni di produzione, ricezione e interpretazione di un testo.

 

CONVERSAZIONE. Uno degli oggetti di studio della pragmatica. Norma fondamentale della c. sarebbe il principio della cooperazione: “fornite il vostro contributo alla c. secondo le circostanze, il fine e l’andamento del discorso”. A questo vanno aggiunte 4 regole: 1) quantità: “sii informativo quanto si richiede”; 2) qualità: “cerca di dare un contributo veritiero”; 3) rapporto: “sii pertinente” (cioè non uscire dal tema); 4) modo: “sii chiaro, conciso e ordinato”. La ricerca pragmantica in questo caso diventa applicata, e confina con il campo dell’educazione linguistica.

 

COORDINAZIONE. Tipo di espansione in cui l’elemento aggiunto riveste la stessa funzione di uno degli elementi già presenti nell’enunciato. Es. Luigi mangia e beve (c. del predicato); Luigi e suo fratello mangiano. (c. del soggetto). La c. può riguardare qualunque unità di prima articolazione: con o senza zucchero, quando e se verrai, mangio pane e salame ecc.

 

COPPIA MINIMA. Coppia di unità linguistiche distinte fra loro unicamente dalla presenza di due fonemi in opposizione: es. /b/atto ~ /p/atto.

 

COREFERENZA. Proprietà di più elementi in un testo di riferirsi alla stessa entità. La c. vale in un testo, e non deve essere confusa con la sinonimia che è invece un fatto di lingua. Ad esempio burattino e monello non sono sinonimi, ma coreferenti in quanto in un testo particolare rimandano entrambi a Pinocchio. La c. si manifesta con ripetizioni (Pinocchio... Pinocchio... Pinocchio), con pronominalizzazioni (Pinocchio... lui... che...) o con proforme (Pinocchio... il burattino... quel monello).

 

CORRELAZIONE. In fonologia è una serie di opposizioni di fonemi distinti mediante la stessa marca: es. c. di sonorità (/p/ : /b/ = /t/ : /d/ = /k/ : /g/ = /f/ : /v/). Le c. rappresentano un importante aspetto dell’economia della lingua, in quanto permettono di distinguere molti fonemi con pochi tratti distintivi.

 

COSTITUENTI IMMEDIATI. Nella linguistica descrittiva americana si designano così i primi elementi individuati mediante la segmentazione della catena linguistica: “il cane / abbaia”. L’ulteriore segmentazione porta all’individuazione dei c. ultimi: il / can / e / abbai / a.

 

COSTRUZIONE. Nella linguistica descrittiva americana si intende con c. ciascuno degli ordini uguali ricorrenti in cui possono comparire le forme linguistiche. La successione radice-suffisso-desinenza è dunque una c. morfologica; la successione soggetto-verbo, o quella protasi-apodosi nel periodo ipotetico sono c. sintattiche. Si possono distinguere regole generali di c., alcune delle quali tipiche e caratterizzanti (v. ordine basico), e regole di valenza, che riguardano singoli elementi lessicali, ad esempio verbi (credere in-, parlare di-, giurare su-) aggettivi (abile in-, desideroso di-, pronto a-) ecc.

 

COTESTO. Èil testo stesso come contesto degli elementi che lo costituiscono, ed è dato da tutte le relazioni intratestuali. Si dirà pertanto che una certa parola ha un certo valore in un c. specifico, se essa può essere interpretata solo in riferimento al testo in cui compare.

 

CREATIVITÀ. Proprietà della lingua per cui, secondo una prospettiva generativo-trasformazionale, è possibile realizzare un numero infinito di frasi, tutte teoricamente diverse e nuove, a partire da un numero finito di regole. In una prospettiva funzionalista la c. si manifesta attraverso la cosiddetta tecnica libera del discorso, che consiste nella libertà di selezione e combinazione di unità linguistiche nella produzione di messaggi, pur dentro i limiti del sistema e della norma. Per il caso inverso v. discorso ripetuto.

 

CREOLO. Una lingua che si forma come conseguenza di un processo prolungato di mescolanza linguistica, e che si fissa in tal modo come lingua autonoma, trasmessa di generazione in generazione. Storicamente i c. sono frutto dell’incontro di lingue europee di colonizzazione (inglese, francese, portoghese, spagnolo e olandese) con lingue di indigeni o schiavi. Il più famoso c. è quello haitiano a base francese, che è lingua nazionale dello stato.

 

DECLINAZIONE. Variazione della forma del nome (sostantivo e aggettivo, ma anche pronome) nelle lingue flessive. I morfemi di d. esprimono le categorie del genere, del numero e, in alcune lingue, del caso, e consistono in classi di suffissi e soprattutto di desinenze. Variazioni del tema nominale erano frequenti nelle lingue indeuropee antiche. In italiano sono presenti residui di questa situazione in casi come uom-o uomin-i.

 

DEISSI. “Ehi tu, vieni qui, ci sono Carlo e l’amico!” Funzione universale del linguaggio che permette di riferirsi immediatamente alla situazione in cui avviene la comunicazione linguistica. Questa proprietà appartiene in particolare a: 1) pronomi personali (io = “chi ti sta parlando qui ed ora” ecc.); 2) dimostrativi (codesto = “ciò che è vicino a te che mi ascolti qui ed ora” ecc.); 3) articolo determinativo (l’amico = “proprio quello che io e tu che mi ascolti qui ed ora conosciamo”). Anche i nomi propri, usati senza ulteriori specificazioni, funzionano come elementi deittici (Carlo = “quel Carlo che io e tu che mi ascolti qui ed ora conosciamo”). Da un punto di vista semiologico gli elementi deittici sono indici, perché sono in rapporto di contiguità immediata con la situazione di discorso (v. enunciazione).

 

DENOTATIVA. Funzione dell’atto linguistico. v. rappresentazione.

 

DENOTAZIONE. v. significato.

 

DENTALE. Luogo di articolazione caratterizzante quelle consonanti in cui il diaframma si realizza fra la punta della lingua e gli incisivi superiori. Occlusive d. [t], [d]; fricative d. [s], [z]; affricate d. [ts], [dz]; laterale d. [l]; vibrante d. [r].

 

DERIVATO. Elemento lessicale considerato come il risultato di una derivazione.

 

DERIVAZIONE. Procedimento formale che consiste nella determinazione del significato di una radice mediante l’aggiunta di un affisso, specialmente prefisso o suffisso (es. pre-vis-ione, re-vis-ione, in-vis-ibile ecc.).

 

DESIGNAZIONE. Termine a volte impiegato come sinonimo di denotazione (v. significato) o referenza. Nella terminologia di Coseriu indica la relazione di volta in volta diversa fra il segno linguistico e la realtà. Un marito potrà essere designato di volta in volta come lui, mio marito, quell’imbecille, l’ingegnere, Carlo, il padre dei miei figli ecc., cioè con termini che hanno tutti significati diversi. Nei linguaggi scientifici la d. tende a fissarsi in termini tecnici non ambigui (in medicina cranio invece di testa, capo ed altre d. concorrenti, addome invece di pancia, ventre ecc.).

 

DESINENZA. Nelle lingue flessive è l’ultimo morfema del complesso sintagmatico della parola, con il quale vengono indicate le sue relazioni sintattiche. In italiano le d. esprimono nel nome le categorie del genere e del numero determinando in questo modo l’accordo (es. chiar-e, fresch-e, dolc-i acqu-e). In latino nella d. nominale è espresso anche il caso. Anche le d. verbali esprimono categorie che impongono l’accordo (persona, numero: es. tutt-i noi cred-iamo), mentre le altre categorie (modali, aspettuali, temporali) sono in parte espresse nel tema dal suffisso tematico. La funzione della d. è dunque fondamentalmente coesiva sul piano sintagmatico.

 

DETERMINATIVO. v. articolo.

 

DETERMINAZIONE. Rapporto sintattico e semantico fra due unità linguistiche, una delle quali specifica il significato dell’altra. La d. può riguardare rapporti fra parole o tra unità all’interno di una parola. Nel sintagma casa di cura l’unità casa rappresenta il determinato, ed il nesso di cura il determinante; nella parola bellezza il suffisso -ezza rappresenta il determinato (“la qualità di”) mentre la radice bell- è il determinante (specificazione della qualità). Da un punto di vista sintattico le diverse lingue possono differire nell’ordine di successione di determinante e determinato: es. francese très bien e inglese very well hanno una costruzione determinante-determinato opposta a quella dell’italiano benissimo (determinato-determinante). Da un punto di vista semantico la d. consiste nel trasferire un concetto ad un certo settore della realtà (es. cavallo di per sé non designa niente, mentre un cavallo, cavallo bianco, cavallo di Mario convertono un concetto in altrettante designazioni di realtà). Nelle lingue alcune classi di parole sembrano svolgere fondamentalmente una funzione di d. (articoli, possessivi, dimostrativi, numerali, indefiniti ecc., che complessivamente possono essere definiti determinatori).

 

DIACRITICO. Detto di quei segni grafici che modificano in parte il valore del segno cui sono applicati: es.: ˜ ,¨ ,: (ñ, ü a:).

 

DIACRONIA. L’evoluzione di una lingua attraverso il tempo. Secondo Saussure nello studio diacronico non è pertinente il carattere sistematico della lingua (v. sincronia), ma è invece indispensabile individuare con esattezza l’unità interessata dal mutamento che è alla base dell’identità diacronica indicata dal segno > : x > y. Ad es. la negazione italiana mica è la stessa cosa di latino mica “briciola”, anche se il valore da essa assunto nel sistema italiano è diverso. In realtà anche nell’evoluzione la lingua tende a conservare la propria struttura e a riorganizzarsi. Così il sistema delle vocali latine, basato sull’opposizione di durata (vocali lunghe e brevi) si è ristrutturato nel latino tardo in un sistema di opposizioni di grado di apertura, di cui restano tracce in italiano ( porto con /o/ aperta dal latino portum con /o/ breve, ponte con /o/ chiusa dal latino pontem con /o:/ lunga).

 

DIAFASICO. La varietà linguistica in relazione agli stili delle produzioni linguistiche individuali.

 

DIAFRAMMA. Nell’articolazione di un suono si individua il d. nel restringimento o chiusura del canale fonatorio (dalla glottide alle labbra) realizzato dagli organi articolatori attivi che si avvicinano o si appoggiano alla parete opposta (es. lingua-palato: d. delle articolazioni palatali; lingua-alveoli superiori: d. delle denudi; labbro superiore-labbro inferiore: d. delle labiali).

 

DIALETTO. Non è possibile fare una netta distinzione linguistica fra lingua e d., in quanto entrambi presentano tutte le caratteristiche universali implicite nella definizione di lingua. Da un punto di vista sociolinguistico il d. si caratterizza per il numero minore di parlanti rispetto a quelli della lingua standard, e quindi per la sua incapacità di funzionare come strumento di comunicazione interareale. Il suo scarso grado di standardizzazione (assenza di documenti scritti) comporta per il linguista una certa difficoltà nell’identificarlo nel tempo e circoscriverlo nello spazio. Tuttavia la coscienza linguistica dei parlanti ha di solito una percezione molto forte, anche di varietà dialettali minime. Pertanto si può pensare che un d. pur condivendo con altri numerosissime isoglosse, è identificato dal fatto che in esso ricorrano tutte insieme certe caratteristiche che possono ripresentarsi singolarmente in altri d. Il d. romanesco ad esempio è caratterizzato da fenomeni che isolatamente ritornano nel napoletano e nel fiorentino (si pensi al romanesco monno, con assimilazione progressiva come il napoletano murino, ma con assenza di metafonia come il fiorentino mondo).

 

DIALETTOLOGIA. Studio della varietà linguistica diatopica che si manifesta nei dialetti. La d. si occupa soprattutto di produzione orale ed ha stretti rapporti con la sociolinguistica. Il frequente ricorso a rappresentazioni cartografiche la configura talora come geografia linguistica.

 

DIASISTEMA. Nella dialettologia strutturale si definisce d. quel sistema ideale nel quale sono rappresentati tutti i tratti strutturali comuni a più sistemi dialettali diversi. Per fare un esempio diremo che il d. italiano, limitatamente ai fonemi vocalici, comprende cinque unità fonologiche, quelle appunto manifestate dalla scrittura e presenti foneticamente in tutti i dialetti: /a/, /e/, /i/, /o/, /u/. Il d. pertanto è la rappresentazione strutturale dell’uniformità di una lingua storica esaminata nelle sue solidarietà dialettali.

 

DIASTRATICO. La varietà linguistica in relazione allo status sociale del parlante.

 

DIÀTESI. Con questo termine greco che significa “disposizione” si denota la collocazione del soggetto di un verbo rispetto all’azione da questo espressa. Nella d. attiva il luogo dell’azione verbale è fuori del soggetto (Mario lancia la palla); nella d. passiva il soggetto è il luogo in cui si realizza l’azione verbale (la palla è lanciata da Mario). Un caso particolare è quello della d. media, presente nelle lingue indeuropee antiche, in particolare nel greco: il luogo dell’azione in questo caso è ancora il soggetto, senza che vi sia, però, un agente esterno. La d. media coincide in parte con il riflessivo (Mario si lancia all’attacco) e denota un’azione che muovendo dal soggetto si conclude in esso.

 

DIATOPICO. La varietà linguistica in relazione allo spazio geografico.

 

DIFFERENZA. Secondo Saussure nella lingua esistono solo differenze. La d. è l’unica cosa di cui la lingua ha bisogno per funzionare come sistema di segni. Il valore di un segno è puramente differenziale: ogni segno è quello che gli altri non sono. Le d. sono organizzate in opposizioni.

 

DIGLOSSIA. L’uso, nella stessa comunità ma in situazioni diverse, di due varietà della stessa lingua. In alcuni paesi europei, ad esempio in Norvegia e in Grecia, la lingua letteraria e la lingua parlata presentano notevoli differenze, per cui l’uso alternativo dell’una o dell’altra costituisce un fenomeno ben individuabile di d. In Italia invece la d. si manifesta soprattutto nell’uso alternativo della lingua standard e del dialetto, o di una ulteriore varietà (italiano popolare) che si può definire come l’italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto.

 

DIGRAMMA. Successione di due grafemi indicanti un fonema unico (es. ch, gh, qu, gl, gn, sc).

 

DIMOSTRATIVO. v. deissi.

 

DISCORSO. La manifestazione del linguaggio come atto di parole Nell’analisi strutturalistica il d. rappresenta un dominio o un livello linguistico superiore alla frase, e il suo studio è stato di fatto trascurato, perché di difficile formalizzazione. Importanti suggerimenti per la valutazione funzionale del d. e per la sua analisi vengono, in ottica funzionalista, da Benveniste e Jakobson che hanno individuato alcuni elementi (pronomi, avverbi di luogo e tempo, tempi e modi verbali, elementi deittici) che appaiono “ancorati” alla situazione dell’enunciazione, cioè funzionano nell’istanza del d. come indici più che come simboli (v. deissi, semiologia). In ottica distribuzionalista (v. distribuzione) Harris ha cercato di mettere in evidenza la comparsa ricorsivi di frasi in unità più ampie (es. la stessa frase in contesti diversi, o frasi diverse in contesti uguali), il che lo ha portato ad identificare classi di equivalenze come quella tra frasi attive e frasi passive (= analisi del d.). Nella riflessione teorica più recente d. è spesso usato come sinonimo di testo (soprattutto orale).

 

DISCORSO RIPETUTO. “Mettere il carro davanti ai buoi”. Tecnica linguistica consistente nel riuso di espressioni standardizzate tratte da un repertorio di testi ampiamente fruito da una comunità di parlanti (proverbi, testi liturgici o sacri, canzoni, favolistica popolare, e, recentemente, messaggi pubblicitari), Il d.r. è frequentissimo nel parlare quotidiano, anche se il parlante molto spesso non ha più la consapevolezza della fonte da cui trae le sue involontarie citazioni. Alcuni esempi: Giovanni è un’acqua cheta (proverbio: l’acqua cheta rovinai ponti), tu ci vuoi indurre in tentazione (preghiera); la donna è mobile (aria del Rigoletto); ... e sai cosa bevi! (pubblicità della birra). Il d.r. è una delle manifestazioni dell’economia linguistica, in quanto i sintagmi anche assai lunghi di cui fa uso sono dei veri e propri monemi, cioè unità di scelta (tagliare la corda = fuggire; parlare di corda in casa dell’impiccato = [essere] inopportuno ecc.).

 

DISSIMILAZIONE. Mutamento di un fonema causato dalla presenza di un fonema vicino (identico o simile) che fa perdere al primo almeno uno dei tratti distintivi comuni. Es. albero dal latino arborem, veleno dal latino venenum.

 

DISTINTIVO. Si dice di ogni unità linguistica che abbia una funzione differenziatrice nell’ambito di un’unità del livello superiore. Tratti d.: coefficienti articolatori o acustici pertinenti nelle opposizioni fonologiche.

 

DISTRIBUZIONE. Criterio per l’identificazione e la classificazione delle unità linguistiche che non tiene conto della loro funzione e del loro significato, ma unicamente della posizione nella catena in rapporto alle unità che precedono e che seguono. Unità che si presentano nello stesso contesto hanno la stessa d. e quindi appartengono alla stessa classe. Ad esempio l’unità articolo può comparire soltanto prima dei nomi, per cui il, un ecc. fanno parte della stessa classe. D’altra parte la stessa restrizione di comparsa riguarda i dimostrativi, gli indefiniti, i numerali che tuttavia non appartengono alla stessa classe degli articoli perché ammettono anche altre d. (ad es. possono comparire anche davanti al verbo: cfr. questo cane, come il cane; ma questo corre, mentre mai il corre). v. segmentazione, costituenti immediati.

 

DITTONGAZIONE. Trasformazione di una vocale in un dittongo. Le vocali /e/ ed /o/ brevi latine si sono dittongate in [ie] ed [uo] quando si trovavano in sillaba aperta ed accentata: piede da pedem, uovo da ovum.

 

DITTONGO. Successione di due suoni vocalici nella stessa sillaba, uno dei quali è articolato con maggiore energia e sonorità, mentre l’altro ha carattere semivocalico. D. ascendenti sono quelli in cui la semivocale precede la vocale (pieno, vuoto), d. discendenti quelli in cui la successione è inversa (vai, augura).

 

DUALE. v. numero.

 

DURATA. Come tratto fonologico, è un coefficiente distintivo (modo di articolazione) di opposizioni vocaliche e consonantiche (vocali lunghe e brevi, consonanti intense e semplici). Come tratto prosodico (v. prosodia) è una qualità della sillaba senza funzione distintiva.

 

ECCEZIONE. Ciò che non è conforme alle regole, cioè al paradigma delle forme simili. Ad esempio, in italiano il plurale uomini rappresenta un’e. rispetto al paradigma che prevede lo stesso numero di sillabe nel singolare e nel plurale dei nomi. Il plurale uova è un’e. perché presenta una desinenza non prevista rispetto al singolare uovo. Le eccezioni manifestano la sopravvivenza di vecchie regolarità paradigmatiche, cioè di vecchie regole, e perciò sono anch’esse un punto di incontro fra sincronia e diacronia (v. analogia). Così in latino homines rispetto a homo trovava la propria regolarità nel paradigma dei cosiddetti “imparisillabi” (plurali fulgures rispetto a fulgur, retores rispetto a retor, latrones rispetto a latro), ed ova era il plurale regolare del neutro ovum (come dona rispetto a donum, mala rispetto a malum ecc.).

 

ECONOMIA. “batto, patto, matto, fatto, gatto, tatto, ratto ... atto”; “batti, patti, matti ... atti”. Modo generale di organizzazione delle lingue che tende a realizzare il massimo numero di distinzioni con il minor numero possibile di elementi funzionali. Si basa sulla ricorsività di elementi costanti (nell’esempio -att-) combinati con elementi variabili, di solito appartenenti al livello strutturale inferiore (nell’esempio /b/, /p/ ecc. fonemi). L’elemento variabile può essere costituito dallo zero: cfr. nell’esempio atto rispetto a batto, patto ecc. In fonologia l’e. si manifesta nella ricorsività di tratti comuni combinati con uno o più tratti differenziali:

 

[ + occlusivo][ + labiale ] [ + sonoro ] = /b/

[+ occlusivo][ + labiale][ - sonoro ] = /p/

[ + nasale ] [+ labiale] [ + sonoro ]=/m/

[+ nasale ][+dentale][ + sonoro]=/n/

 

In morfologia l’ e. sfrutta l’alternanza di morfemi diversi in relazione ad una base lessicale costante: fatt-o, fatt-i, fatt-accio, fatt-erello, fatt-ibile, fatt-ura, fatt-ucchiera.... In sintassi l’e. si manifesta, fra l’altro, nella ricorsività dei modelli di frase e delle loro trasformazioni:

 

hai fatto questo

hai detto questo

 

non hai fatto questo

non hai detto questo

 

hai fatto questo?

hai detto questo?

 

questo è stato fatto

questo è stato detto

 

EFFICACIA. In pragmatica si designa con e. la riuscita di un enunciato performativo, cioè il successo dell’atto linguistico determinato dal rispetto di regole pragmatiche. La formula di giuramento usata in tribunale (Giuro di dire la verità...) ha garanzia di e. se: 1) essa risponde a un procedimento usuale e convenzionale; 2) le persone e le circostanze del contesto si adeguano alla convenzione; 3) i partecipanti eseguono il procedimento in modo completo e corretto; 4) i partecipanti aderiscono con la loro intenzione al procedimento e si impegnano a comportarsi di conseguenza.

 

ELISIONE. Fenomeno fonetico di giuntura consistente nell’eliminazione della vocale finale di un morfema davanti a morfema che comincia per vocale. Es. bell’uomo, l’olmo, un’aquila. Nel caso in cui l’e. non si verifica abbiamo lo iato.

 

ELLISSI. Impiego di un sintagma di cui sia stata soppressa una parte ritenuta normalmente presente, in pratica il soggetto o il predicato o entrambi. Es. quando la tua visita (avverrà)? Domani (avverrà la mia visita). Come si vede l’e. non riguarda la sintassi della frase, bensì quella del testo in quanto gli elementi omessi devono comunque essere presenti in qualche parte del testo. In questa prospettiva l’e. è una manifestazione della coesione testuale e svolge una funzione simile a quella dell’anafora.

 

-EMA. Suffisso che denota l’elemento formale minimo, ai vari livelli della struttura linguistica (fonema, morfema, lessema, semantema, grafema).

 

EMOTIVA. Funzione dell’atto linguistico. v. espressione.

 

ENCLITICO. Si dice di un elemento lessicale che non avendo accento proprio si appoggia alla parola che lo precede. La parola e. nell’ortografia dell’italiano è normalmente scritta unita alla parola che precede: es. eccolo, metticelo.

 

ENFASI. Messa in evidenza di una parte dell’enunciato, realizzata con mezzi prosodici (allungamento, innalzamento del tono, accento ecc. v. prosodia) o sintattici (v. tema-rema).

 

ENUNCIATO. Unità dell’esecuzione linguistica o della parole compresa fra due pause o identificabile attraverso il cambio di locutore (ad esempio la battuta di un dialogo), suscettibile di essere analizzata in frasi. Una frase identica può costituire due e. diversi (ad esempio: oggi piove realizzata dal sig. Rossi o dal sig. Bianchi, oppure dallo stesso locutore in due diverse situazioni comunicative). L’e. è un’unità del discorso o del testo, cioè di un livello più alto di quello attingibile con un’analisi sintattica. Rispetto alla frase, con cui, come si è detto, può coincidere formalmente, l’e. si distingue per avere sempre il carattere della concretezza e dell’attualità.

 

ENUNCIAZIONE. Il manifestarsi di uno o più enunciati in un concreto atto linguistico. Mentre l’enunciato è analizzabile con criteri linguistici, l’e. richiede l’applicazione di valutazioni di ordine pragmatico.

 

ERRORE. Da un punto di vista paradigmatico l’e. rappresenta l’applicazione di una regola non prevista dalla norma nella produzione di una certa forma linguistica. In questa prospettiva l’e. consiste nell’interferenza fra regole. Il bambino che dice uovi estende la regola del grande paradigma di gatto- gatti su quella del piccolo pardigma lenzuolo- lenzuola, uovo- uova ecc. (si noti come in certi casi l’e. venga accettato: lenzuoli). Anche in glottodidattica l’e. è spesso ricondotto all’interferenza delle regole della lingua materna su quelle della lingua straniera. Da un punto di vista sintagmatico l’e. si riconosce nell’interferenza reciproca delle unità presenti in un messaggio. Di questo tipo sono ad esempio le cosiddette “concordanze a senso” come la gente muoiono.

 

ESECUZIONE. Termine della grammatica generativa di Chomsky. È la messa in opera della competenza del parlante, e si manifesta nella struttura superficiale. L’e. è oggetto di studio della pragmatica.

 

ESPANSIONE. Termine della linguistica funzionale (Martinet) con cui si indica in un enunciato ogni termine o gruppo di termini che può essere tolto senza che gli elementi dell’enunciato stesso mutino le loro funzioni sintattiche. L’e. riguarda il nucleo dell’enunciato (soggetto-predicato). Dato pertanto l’enunciato minimo la donna andava, esso potrà essere espanso in la giovane donna andava al mercato. L’e. si manifesta come coordinazione e come subordinazione.

 

ESPRESSIONE. Funzione universale dell’atto linguistico centrata sul parlante. La funzione espressiva è manifestata oltre che da particolari classi di pronomi o aggettivi possessivi (di prima persona) o relative forme verbali, anche da particolari espressioni valutative (purtroppo, fortunatamente ecc.), da interiezioni tipiche (uffa!, ahimè) e da fatti prosodici quali l’intonazione dubitativa, di sorpresa, di collera ecc.

 

ESPRESSIONE E CONTENUTO. Corrispondono, nella terminologia glossematica, a significante e significato intesi, però, in modo ancora più astratto, in quanto ridotti a pure relazioni formali. Sul piano dell’e. le unità minime (figure) valgono unicamente per le relazioni sintagmatiche e paradigmatiche che intrattengono, e non per la loro sostanza (fonica, grafica). Lo stesso avviene sul piano del c., dal quale è rimossa ogni dimensione psichica.

 

ESPRESSIONE INDICE. o indexicale. Termine della pragmatica, desunto dalla semantica logica, che si riferisce a quelle forme linguistiche di cui non può essere individuato il referente senza un collegamento diretto con il contesto d’uso. Es. qui, ora, oggi ecc. (v, deissi, discorso). Una frase come: io sono ora là, del tutto corretta dal punto di vista della grammatica, è anomala a causa dell’incompatibilità degli elementi ora e là in un normale contesto d’uso.

 

-ETICO- EMICO. “La signora ha l’erre moscia”. Lo stesso che non distintivo ~ distintivo. Gli elementi contrassegnati con il suffisso -etico sono descritti in base alla loro costituzione materiale: ad es. la pronuncia di [r] alla francese, o la cosiddetta “erre moscia” (fatto fonetico). Gli elementi -emisi coincidono con le unità linguistiche minime, e sono descritti in base alle loro funzioni (v. fonema, grafema, monema, morfema).

 

ETIMOLOGIA. La ricerca, in linguistica storica, della forma e del significato più antichi di una parola, allo scopo di ricostruirne il valore originario. L’e. si serve a tale fine di diversi indizi, quali le leggi foniche, i confronti con lingue imparentate o in contatto (v. comparativismo, contatto linguistico), le considerazioni di tipo sociolinguistico e, più in generale, diordine storico-culturale. L’e. è una scienza probabilistica ed i suoi risultati sono tanto più sicuri quanto più 1’ “etimo” conseguito risulta collocabile in una rete di relazioni semantiche con altre unità lessicali della lingua (v. campo semantico). Un altro aspetto dell’e. che rifiuta programmaticamente la scoperta del significato originario di una parola, è quello che si limita a considerare la storia di questa nel corso del tempo.

 

ETIMOLOGIA POPOLARE. Fenomeno di tra‑

sformazione di una parola attraverso l’in­tervento inconsapevole de] parlante, che la interpreta assimilandola ad altre parole presenti alla sua coscienza. L’e.p. colpisce di solito termini di prestito o dotti, e quindi essenzialmente oscuri per il par­lante incolto (di qui la qualificazione di popolare data a questo fenomeno). Casi di e.p. in italiano sono forme come compe­rativa per cooperativa, febbrile per flebite.

 

FAMIGLIA LINGUISTICA. Gruppo di lingue che presuppongono una stessa lingua madre, in quanto caratterizzate da una serie regolare di corrispondenze (v. parentela), soprattutto nella grammatica, oltre che nel lessico. Le più importanti f. l. dell’Eurasia sono: la f indeuropea, la semitica (arabo, ebraico ecc.), l’altaica (turco, mongolo, forse giapponese e coreano), l’uralica (ungherese, finlandese ecc.). Nei casi, non rari, di lingue non inquadrabili in una f. l. si parla di lingue isolate: fra queste il basco, parlato nella parte settentrionale della penisola iberica.

 

FÀTICA. Funzione dell’atto linguistico centrata sul canale di comunicazione consistente in procedure meccaniche per verificare che tale canale non sia interrotto, o sia attivato (i pronto? o i sì delle conversazioni telefoniche).

 

FLESSIONE. Organizzazione morfologica tipica delle lingue dette flessive che consiste nella determinazione dei rapporti sintattici di una parola mediante l’impiego di desinenze. f verbale v. coniugazione; f n-minale v. declinazione.

 

FLESSIVO. Nella classificazione tipologica sono definite f. le lingue che ricorrono a modificazioni della parola per esprimerne le funzioni morfologiche, sintattiche o per determinarne ulteriormente il significato. Tali modificazioni possono interessare la radice (v. apofonia), oppure manifestarsi mediante l’aggiunta di diversi affissi (v. derivazione) o desinenze, queste ultime in vista dell’espressione di rapporti sintattici (v. coniugazione, declinazione, accordo). Nelle lingue f radici, affissi e desinenze sono sempre forme legate (v. parola).

 

FONEMA. Suono linguistico dotato di funzione distintiva al livello morfologico e lessicale. Rappresenta l’unità di seconda articolazione, che combinata con altre costituisce il significante dei monemi. È costituito da un insieme di tratti costanti che permettono di opporlo ad altri fonemi (tratti distintivi), e da eventuali tratti esclusivi, non oppositivi. Nella realizzazione concreta il f può acquisire altri tratti non previsti dal sistema in dipendenza dal contesto fonetico o da abitudini individuali del parlante, per cui si manifesta come variante o allofono (varianti combinatorie o individuali). In alcune scuole strutturaliste il f. è definito senza alcun riferimento alla materia fonica che lo costituisce, ma unicamente in base alla rete di relazioni di cui entra a far parte (v. glossematica). In altre è definito come un fascio di tratti distintivi. In altre infine come una classe di varianti o allofoni. In ogni caso il f, è l’unità di studio della fonologia o fonematica, mentre la fonetica studia il suono linguistico prescindendo completamente dalle sue funzioni nel sistema.

 

FONEMATICA. La scienza che studia i fonemi. Termine usato in alternativa con fonologia.

 

FONETICA. La scienza che studia il suono linguistico come fatto materiale. La f. articolatoria si occupa di come vengono prodotti i suoni e li descrive dal punto di vista dell’apparato di fonazione; la f. acustica studia invece il suono dal punto di vista della sua risultanza fisica.

 

FONETICA ACUSTICA. Settore della fonetica che studia le proprietà fisiche dei suoni linguistici (tono, frequenza, ampiezza) che si manifestano durante la trasmissione di un messaggio dalla bocca del parlante all’orecchio di un ascoltatore. Mentre i tratti distintivi della fonologia sono basati su coefficienti articolatori (v. articolazione, consonante, vocale, modo e luogo di articolazione), il binarismo di Jakobson si basa in gran parte su parametri acustici.

 

FONETICA ARTICOLATORIA. v. articolazione.

 

FONOLOGIA. La scienza che studia i fonemi, cioè i suoni linguistici considerati come organizzati in un sistema e come dotati di funzione distintiva a livello morfologico e lessicale.

 

FONOSIMBOLO. Segno linguistico non segmentabile in morfemi e fonemi, ed in qualche modo autosufficiente, in quanto funziona come segnale convenzionale piuttosto che come elemento di una struttura: uff “segnale di noia”, sst “richiesta di silenzio”. Nei f possono comparire articolazioni assenti dal sistema fonologico di una lingua, come ad esempio i clic.

 

FORMA. Termine generale per indicare qualsiasi unitià linguistica considerata nella sua manifestazione. In particolare con f linguistica si intende ogni elemento in quanto capace di mostrare il proprio valore (es. le f. del verbo essere: le f. pronominali; una f. di diminutivo ecc.)

 

FORMA LEGATA. v. parola.

 

FORMA LIBERA. v. parola.

 

FORMA ~ SOSTANZA. “La lingua è forma, non .sostanza”. Il carattere formale della lingua è stato sostenuto da tutte le teorie linguistiche del Novecento. Saussure paragonava la lingua al gioco degli scacchi, in cui ogni pezzo può essere sostituito da un oggetto qualsiasi, purché sia mantenuto il valore del pezzo nel gioco. La f. della lingua è allora data dalle “regole del gioco”. cioè dai rapporti reciproci delle unità linguistiche. La s. è la realtà semantica o fonica considerata indipendentemente da ogni utilizzazione linguistica (v. –etico ~ emico). Una stessa f. linguistica può essere manifestata da s. diverse (fonica, grafica). v. glossomatica.

 

FRASE. Unità linguistica universale, intuitivamente riconosciuta dal parlante che ne percepisce il carattere compiuto sia da un punto di vista semantico, sia da un punto di vista sintattico. La grammatica tradizionale ha creduto di render conto di questa intuizione del parlante definendo la f. come una proposizione formata almeno da un soggetto e da un predicato (v. funzioni sintattiche). In prospettiva funzionalista la f. è stata riconosciuta come unità della parole (Saussure) o del discorso (Benveniste), ambiti nei quali essa rappresenterebbe l’unità del livello più basso. Dal punto di vista della langue, invece, la f. rappresenta l’unità del livello più alto, in quanto combinazione significativa di unità del livello inferiore (parole). La linguistica descrittiva americana considera la f come una forma massima, cioè come una costruzione che, in un enunciato dato, non fa parte di una costruzione più ampia. La grammatica generativa definisce la f. come ogni struttura sintattica che può essere generata dal componente sintattico della grammatica, mediante regole di riscrittura e regole trasformazionali, e la considera come un membro dell’insieme costituito dalle combinazioni grammaticali di parole. Come si vede tutte queste posizioni riconoscono alla f. la condizione di unità di “confine” fra il dominio della lingua come sistema strutturato di segni e quello della lingua come strumento di comunicazione. In quest’ultima prospettiva piuttosto che di f. si preferisce parlare di enunciato, che diventa così costituente del senso di un testo, e strumento fra gli altri della competenza comunicativa del parlante, che usa la lingua in una dimensione pragmatica.

 

FREQUENZA. v. lessicostatistica.

 

FRICATIVO. Modo di articolazione caratterizzante certi fonemi consonantici nella realizzazione dei quali l’aria passa attraverso un diaframma stretto producendo un fruscio: nel sistema fonologico italiano sono presenti f labiodentali (/f/, /v/), dentali (/s/, /z/) e palatali (/ς/). Il grafema h che in molte lingue indica la f. laringale o velare non ha realizzazione fonologica in italiano.

 

FUNZIONALISMO. “I fonemi funzionano nei morfemi, questi nelle parole, queste nei sintagmi...” Considerazione sistematica della lingua che è concepita come un sistema di sistemi, in cui gli elementi di ogni subsistema si integrano nel livello superiore, funzionando come elementi di senso (v. funzione).

 

FUNZIONE. Nel suo valore più vicino all’uso comune il termine f. indica lo scopo per il quale è impiegata la lingua. Generalissima è la f comunicativa in cui si riconosce lo scopo di trasmettere un’informazione da un parlante ad un ascoltatore (es. è arrivato il treno!). In quest’ottica lo studio di una lingua consiste nella ricerca delle diverse funzioni svolte dai suoi elementi. Ad esempio i fonemi hanno f. distintiva, perché pur non avendo significato hanno lo scopo di distinguere le parole sui piano semantico (donna ~ danno; batto ~ ballo). Nelle parole lessemi e morfemi hanno una f rappresentativa, servono cioè a raffigurare la realtà (il suffisso -ino in gatt-ino rappresenta ciò che è piccolo). Le interiezioni o l’intonazione di frase hanno invece una f espressiva, cioè manifestano i sentimenti del parlante o il suo atteggiamento nei riguardi della realtà (es. No! Sei giù arrivato?!). Le 6 f. individuate da Jakobson corrispondono ad altrettanti scopi dell’atto linguistico (v. comunicazione). Con un valore diverso, vicino a quello matematico, f. è usato per indicare i rapporti strutturali fra gli elementi della lingua. I termini di un sintagma contraggono una f di congiunzione, detta anche f. ET; i termini di un paradigma sono invece in f di disgiunzione, o in f AUT. Nella parola pino /p/ /i/ /n/ /o/ sono in f ET; /p/ e /v/ sono invece in f AUT (o pino o vino).

 

FUNZIONI SINTATTICHE. Sono possibili diverse impostazioni per l’interpretazione della struttura sintattica di una frase. L’analisi logica tradizionale consiste in una procedura di descrizione dei rapporti sintattici assunta come universale, che pretende di rappresentare tali rapporti dal punto di vista delle categorie di pensiero espresse: soggetto, attributo, apposizione, predicato, oggetto, complementi vari. In questottica il soggetto è “ciò di cui si parla”, il predicato corrisponde a “ciò che si afferma riguardo al soggetto”, il complemento (= completamento) è “un’informazione accessoria”. I termini attributo ed apposizione riguardano ulteriori informazioni sul soggetto o sui complementi. La nozione di (complemento) oggetto rimanda al caso in cui il predicato sia espresso dalla classe dei verbi transitivi. I tentativi di superamento di questo tipo di analisi vanno nella direzione dell’individuazione di funzioni non logiche, ma strettamente sintattiche. Ad esempio, nella sintassi strutturale di Tesnière il predicato è definito negativamente come “ciò che non è complemento di niente” ed è visto come l’elemento dominante o chiave della frase.
Soggetto, oggetto e complemento di termine, diventano in questa teoria 1° attante, 2° attante e attante; gli altri complementi sono chiamati circostanti. Nella sintassi funzionale di Martinet il rapporto sintattico minimo, quello fra soggetto e predicato, è definito nucleo, mentre tutto il resto è definito espansione. Anche la grammatica generativa riconosce la necessaria complementarietà di soggetto e predicato, rappresentata nella riscrittura di ogni nodo F(rase) in SN e SV (sintagma nominale e sintagma verbale). In quest’ottica il soggetto è definito come il SN immediatamente dominato da un nodo F:

 

FUSIVO. Tratto tipologico con cui si allude al fatto che non sono riconoscibili i limiti delle unità costitutive delle parole: nella forma scrissi non è possibile individuare il limite della radice e quello del morfema che indica la categoria del tempo; nel caso invece della seconda persona scriv-esti tale possibilità è evidente. Il carattere f rappresenta il livello massimo del grado di sintesi. Per definizione le lingue agglutinanti si contrappongono alle flessive per l’assenza della fusione.

 

GENEALOGICO. Criterio di classificazione delle lingue storiche in base ad una loro supposta origine comune (v. famiglia linguistica).

 

GENERE. Categoria grammaticale non universale che determina con altre l’accordo fra le diverse forme nominali. La coincidenza con il genere “naturale” (sesso) è solo parziale, come dimostra, anche nelle lingue a tre g. (maschile, femminile e neutro) la casuale appartenenza delle parole all’uno o all’altro: si pensi, in italiano, a tavolo e tavola, in tedesco a das Fenster (n.) “finestra”, die Tür (f.) “porta” e der Stühl (m.) “sedia”. Parziali motivazioni per l’appartenenza di un sostantivo ad un certo g. sembrano riconoscibili in alcuni paradigmi lessicali. Ad esempio in latino i nomi di alberi sono femminili (pirus “pero”), i nomi di frutto sono neutri (pirum “pera”); in greco antico e in tedesco le entità piccole, e quindi le forme diminutive del nome, sono neutri (gr. tò téknon. ted. das kind, “figlio”). Meno chiari i motivi di appartenenza al g. maschile, che è comunque la categoria non marcata (v. marca). Ad esempio: tutti in piedi!, con una forma pronominale morfologicamente maschile, ma di fatto capace di designare persone dei due sessi. L’opposizione maschile/femminile/neutro sembra aver sostituito un’opposizione più antica fra animato e inanimato, a cui in parte possono essere ricondotti gli esempi fatti sopra (“albero” = animato / “frutto” = inanimato). Categorizzazioni più complesse sono quelle di lingue extraeuropee, che organizzano il lessico in base a certe proprietà dei referenti (persona/non persona; materia compatta/materia aggregata ecc.).

 

GEOGRAFIA LINGUISTICA. Studio dei fatti linguistici attraverso le loro manifestazioni geografiche (v. dialettologia, atlante linguistico, norme areali).

 

GERGO. Sottocodice particolare di una data lingua, usato da comunità socialmente emarginate (si pensi ai g. della malavita). con lo scopo di impedire la comprensione da parte di estranei. I g. sono caratterizzati da innovazioni lessicali, spesso consistenti nell’attribuzione di particolari significati a parole della lingua standard (dondolo “collana”. madama “polizia in genere”: molte parole dei g. sono ormai di dominio pubblico: sbobba, sbolognare, sbarbato ecc.). Sono riconoscibili tuttavia anche caratterizzazioni morfologiche, quale la predilezione per il suffisso -oso (ad esempio: scabbioso “autunno”; rabbiosa “pistola”; sanguinosa “tipo di banconota”; polverosa “farina”).

 

GIUNTURA. Riflesso fonetico del contatto di due unità linguistiche che si trovino in contiguità sintagmatica. La g. si può manifestare con una pausa o con un’assenza di pausa (donnacannone rispetto a donna, cannone) ma può anche configurarsi come modificazione fonetica ad esempio in sopra tutto pronunciato e scritto soprattutto). I casi di assimilazione fra unità linguistiche contigue rientrano nel fenomeno della g., così come i fenomeni di elisione (comprendo rispetto a con prendo, l’occhio rispetto a lo occhio), troncamento ecc.

 

GLOSSEMA. Qualunque elemento linguistico, considerato come pura forma, che entra in una rete di rapporti (v. glossematica).

 

GLOSSEMATICA. Teoria proposta dal linguista danese L. Hjelmslev che concepisce la lingua come una rete di rapporti. La g. ritiene che ogni elemento linguistico di espressione o di contenuto sia identificabile unicamente grazie alle relazioni strutturali con gli altri elementi. Per i glossemi non sono dunque pertinenti le sostanze, fisica o psichica, in cui si manifestano, ma solo le funzioni di congiunzione o di sostituzione. Per l’identificazione del glossema [r] (figura dell’espressione) in italiano, si constata che esso può comparire prima o dopo [b] (torbido, briciola), ma soltanto prima di [l] (parlo). Il confronto con il glossema [m] rivela che quest’ultimo non compare mai dopo [b], né prima di [l], per cui [r] e [m] saranno sostituibili soltanto prima di [b] (torbido, ambiguo). Il proseguimento dell’analisi individuerà tutti i contesti in cui può comparire [r] e tutte le sostituzioni a cui può essere soggetto, permettendo l’identificazione di ogni [r] possibile (pronunziata, scritta, trasmessa con l’alfabeto Morse, col sistema di bandiere in uso in Marina, col linguaggio dei sordomuti ecc.).

 

GLOTTODIDATTICA. La ricerca connessa con i metodi per l’insegnamento di una lingua straniera (L2). In base ai presupposti teorici è possibile riconoscere 4 principali scelte metodologiche: 1) quella ispirata alla grammatica normativa che mira all’acquisizione di una tecnica di traduzione di testi scritti mediante l’apprendimento di paradigmi e regole; 2) quella ispirata al comportamentismo che mira all’acquisizione di automatismi di risposta a stimoli attraverso la memorizzazione di brani di lingua parlata esemplificanti le principali strutture della L2; 3) quella ispirata alla grammatica generativa che mira all’acquisizione di una competenza linguistica simile a quella del parlante nativo, attraverso la formulazione di ipotesi di adeguatezza; 4) quella ispirata alla pragmatica che mira all’acquisizione della competenza comunicativa in L1 mediante la correlazione fra i contenuti dei messaggi e gli scopi per cui sono proposti.

 

GRADO DI SINTESI. Criterio di classificazione tipologica che tiene conto del predominare in una lingua di procedimenti isolanti o fusivi nell’espressione delle determinazioni grammaticali e semantiche. Nessuna lingua è completamente analitica o completamente sintetica: si dirà però che l’italiano è relativamente più sintetico del francese, dato che spesso esprime con una sola parola (grandissimo, omino, ansiosamente) i concetti che il francese esprime mediante perifrasi (très grand, petit homme, avec anxiété). Il grado estremo di sintesi è rappresentato da lingue (dette polisintetiche) che realizzano vere e proprie parole-frasi: un esempio è quello dell’eschimese in cui la parola takusar/iartor/uma/galuar/ner/pa significa “pensate che lui abbia intenzione di andare ad occuparsi di ciò?”.

 

GRAFEMA. Unità minimadella scrittura. A seconda dei sistemi grafici si distinguono ideogrammi, logogrammi, sillabogrammi, e segni fonetici. Analogamente al fonema, del quale condivide le funzioni distintive, il g. può essere considerato una classe di allografi (si pensi ai vari modi di scrivere una qualunque lettera del nostro alfabeto: corsivo, maiuscolo, minuscolo ecc.).

 

GRAMMATICA. L’insieme delle regolarità dei sistemi linguistici ed il loro studio. Riguardo ai tre livelli generali della manifestazione della lingua è possibile distinguere tre tipi fondamentali di g.: 1) in relazione al sistema si può parlare di una g. strutturale o formale, che rende espliciti i rapporti paradigmatici tra le unita linguistiche dei diversi livelli della strutturazione; 2) in relazione alla norma si parla correntemente di g. normativa, che esplicita le forme corrette ed accettabili, individua le eccezioni e segnala gli errori senza fornire generalmente spiegazioni per tutti questi fenomeni; 3) in relazione all’uso la g. coincide con l’educazione linguistica, e promuove l’abilità del parlante rendendo espliciti i livelli possibili di competenza. La g. che si fonda sui dati linguistici è fondamentalmente descrittiva (v. fonologia, morfologia, sintassi, semantica, lessicologia). La g. che invece mira all’esplicitazione di regole è fondamentalmente esplicativa (v. grammatica generativa).

 

GRAMMATICA COMPARATA. Applicazione del comparativismo ai sistemi grammaticali, in quanto capaci di fornire una prova decisiva per la parentela fra più lingue.

 

GRAMMATICA GENERALE. Si basa sull’opinione che tutte le lingue manifestano il pensiero logico. Ciò sarebbe mostrato da alcuni universali grammaticali, come la presenza in tutte le lingue di sostantivo e verbo (argomento e predicato) o di sostantivo, verbo essere e aggettivo (possibilità di esprimere un giudizio, cioè di attribuire una proprietà ad una cosa: Il fuoco è caldo). Famosa la “Grammatica generale e ragionata” di Port Royal, pubblicata in Francia nel 1660 da Lancelot e Arnauld, che si basa appunto sulla concezione della lingua come rappresentazione del pensiero.

 

GRAMMATICA GENERATIVA. Rappresentazione formalizzata dei rapporti grammaticali di una lingua consistente in un insieme di regole che, applicate meccanicamente, producono tutti gli enunciati corretti di una lingua e quelli soli (v. grammaticalità). La g. g. vuole rendere esplicito quell’insieme di intuizioni linguistiche che il parlante adulto possiede e che gli permettono di formulare giudizi sulla grammaticalità, sul significato e sulle differenze fonologicamente pertinenti degli enunciati (v. competenza). Dóvrà, ad esempio, rendere ragione del doppio significato di una frase ambigua (l’amore della madre = la madre ama / la madre è amata) o della somiglianza strutturale di enunciati semanticamente molto distanti (cfr. verso vino nella bottiglia / trovo difficoltà nella traduzione). La g. g. si propone di scoprire quali sono state le congetture che il bambino ha fatto sull’insieme finito di frasi cui è stato esposto nella prima infanzia, e che lo hanno portato ad acquisire la competenza.
Il meccanismo di acquisizione deve basarsi su un numero piuttosto grande di principi universali rigidamente fissati, ed un numero ristretto di parametri, cioè di possibilità di scelta alternative (base innata della grammatica). La sintassi è il nucleo della g. g. trasformazionale di Chomsky in quanto comprende, 1) le regole di riscrittura (o regole sintagmatiche) che insieme al lessico generano la struttura profonda delle frasi, e 2) le regole di trasformazione che su essa operano. La g. g. comprende, oltre al componente sintattico, il compo­nente semantico ed il componente fonolo­gioco che interpretano rispettivamente la struttura profonda e la struttura superficiale.

 

GRAMMATICA STORICA. “amare habeo > amare ho > amerò”. Consiste nella considerazione diacronica dei paradigmi morfologici di una data lingua, di solito mediante il confronto con una lingua madre. Nel caso della g. s. dell’italiano il confronto con il latino mette in evidenza alcuni fenomeni caratteristici: scomparsa della declinazione nominale; scomparsa della coniugazione passiva; creazione di tempi composti (passato prossimo, futuro anteriore, trapassato prossimo e remoto) e di un nuovo futuro. Nel caso di lingue antiche (latino, greco, sanscrito) la g. s. si fonda sul metodo comparativo e ricostruttivo (v. comparativismo, ricostruzione).

 

GRAMMATICA TRASFORMAZIONALE. Una delle possibili grammatiche generative e in particolare quella codificata da N. Chomsky.

 

GRAMMATICALITÀ. “Questo tavolo rotondo è quadrato” (frase grammaticale). Giudizio di correttezza di una frase formulato dal parlante nativo in base alla sua competenza. La g. non ha niente a che vedere con la probabilità che una frase sia effettivamente usata, ma riguarda unicamente il fatto che sia sintatticamente ben formata, ossia costruita secondo le regole di riscrittura e di trasformazione.

 

IATO. “L’ho intuito perché ho grande intuito”. Incontro di vocali che non fanno parte della stessa sillaba e quindi non formano dittongo (tac-cu-i-no, cir-cu-ì-to part. pass. di circuire, opposto in tal modo a cir-cùi-to).

 

ICONA. v. segno.

 

IDENTITÀ. Il ricorrere di un’unità linguistica dotata sempre dello stesso valore. Saussure fa l’esempio di un treno, che parte ogni giorno alla stessa ora per la stessa destinazione: si dovrà parlare dello stesso treno (identità) anche se esso sarà sempre materialmente diverso (viaggiatori, personale, vagoni ecc.). Anche nella lingua l’i. è un fatto di forma e non di sostanza: possiamo immaginare diverse pronunce della parola rosa (con o aperta o chiusa, con s sorda o sonora) ma il suo valore, e quindi la sua i. non cambiano. Così non muta l’i. dell’unità linguistica cantare sia che si dica Placido Domingo [canta] da tenore, o Giovanni [canta] facendosi la barba, o il complice [ha cantato] in Questura, o Omero [canta] le gesta di Achille, o [cantare] vittoria, o [cantarla] chiara a qualcuno ecc.

 

IDEOGRAMMA. Grafema che indica un concetto, e quindi la parola (o le parole) che lo esprimono in una determinata lingua. Un esempio di i. è dato dalle cifre numeriche (1, 2, 3 ecc.), che proprio grazie al loro valore ideografico si prestano ad essere lette in tutte le lingue.

 

IDIOLETTO. Insieme di tratti caratteristici della manifestazione individuale della lingua. Si riconosce in peculiarità fonetiche (varianti individuali, o allofoni: ad es. una particolare pronuncia della /r/); selezioni particolari a livello morfologico (ad es. la scelta fra le varianti morfo-fonematiche chirurgi/chirurghi, la preferenza per il congiuntivo o l’indicativo come modi dell’ipotassi ecc.); opzioni fra varianti lessicali o sinonimi (babbo/papà; fino/sino). La manifestazione più vistosa dell’i. si ritrova nelle lingue dei diversi scrittori, nelle quali le scelte individuali configurano complessivamente lo stile individuale.

 

IDIOTISMO. Tratto tipico di un idioletto.

 

ILLOCUTIVO. Tipo di atto linguistico. v. an-che performativo.

 

IMMAGINE ACUSTICA. Il significante, secondo la terminologia di F. de Saussure. Con questo termine Saussure voleva sottolineare il fatto che il significante non è costituito da suoni, ma dalle loro rappresentazioni psichiche.

 

INDETERMINATIVO. v. articolo.

 

INDEUROPEO. La più importante famiglia linguistica, originariamente diffusa in uno spazio che va, grosso modo, dall’India all’Islanda; oggi, con alcune sue lingue (inglese, spagnolo, portoghese) praticamente diffusa in tutto il mondo. L’unità i. è stata riconosciuta mediante il metodo comparativo-ricostruttivo (v. comparativismo, ricostruzione) nel secolo scorso, e presuppone una lingua madre preistorica. Le più importanti lingue o gruppi di lingue i. sono: in India le lingue indoarie (in particolare il sanscrito, lingua letteraria classica), nel Medio Oriente le lingue iraniche (persiano antico e moderno) e l’armeno; nel Vicino Oriente l’ittito ed altre lingue minori parlate nell’antichità nel territorio dell’odierna Turchia; nel bacino del Mediterraneo il greco, il latino ed altre lingue minori dell’Italia antica (osrco, umbro, venetico), e inoltre l’albanese; nell’Europa continentale le lingue slave (russo, bulgaro, polacco ecc.), baltiche (lituano, lettone ecc.), germaniche (tedesco, lingue della Scandinavia, olandese, inglese ecc.), celtiche (irlandese, gallese ecc.). La famiglia i. contava sicuramente altri membri oggi estinti, come mostra il riconoscimento, solo nel nostro secolo, del carattere i. del tocario, lingua parlata un tempo nel Turkesan cinese. Vari sono stati i tentativi per ricondurre l’i. ad una famiglia linguistica preistorica più ampia; in tal senso sono state cercate somiglianze soprattutto con le lingue semitiche e uraliche.

 

INDICATORE SINTAGMATICO. È la descrizione strutturale di una frase che si ottiene, in una grammatica generativa, alla fine dell’applicazione delle regole di riscrittura [(AN) (VAN)] = il cane mangia l’osso. L’i.s. rappresenta la struttura profonda.

 

INDICE. v. segno.

 

INFISSO. Tipo di affisso che ha la peculiarità di inserirsi all’interno della radice. Ad esempio la radice verbale latina vic- (cfr. victoria “vittoria”) manifesta nel presente un i. nasale: vinc-o, che è assente nella forma del perfetto vic-i.

 

INNATO. La capacità di produrre il linguaggio, secondo Chomsky, è una facoltà innata della specie umana, e giustifica tutti gli aspetti universali delle diverse grammatiche. (v. grammatica generale, grammatica generativa).

 

INTENSO. Modo di articolazione caratterizzante i fonemi consonantici in cui interviene una particolare tensione muscolare, pressione dell’aria e durata. Nella rappresentazione grafica talora si ricorre alla duplicazione del grafema ([t-t] ecc.). In italiano l’articolazione delle affricate dentali è sempre i. anche in posizione iniziale.

 

INTENZIONE. In pragmatica coincide con lo scopo dell’atto linguistico, e in quanto tale va distinta dal contenuto proposizionale del messaggio (v. locutivo).

 

INTERFERENZA. In diverse discipline linguistiche si indicano col nome di i. i fenomeni di contatto e di sovrapposizione di due lingue diverse nelle esecuzioni linguistiche di un singolo parlante. Il carattere processuale dell’i. e la sua verificabilità negli atti linguistici individuali secondo la teorizzazione fatta da Weinreich, permettono di differenziarla dal contatto linguistico che si manifesta come istituzionalizzazione dell’i. nei processi di formazione delle lingue storiche. In un senso più ristretto si parla di i. nella teoria della traduzione e in glottodidattica: nel primo caso l’individuo in cui si realizza è il traduttore, in quanto partecipe di una competenza duplice (v. bilinguismo); nel secondo caso, il luogo dell’interferenza è colui che apprende la lingua straniera, in situazione di competenza imperfetta rispetto a questa.

 

INTERIEZIONE. Tradizionalmente comprese fra le parti del discorso, le i. rappresentano elementi linguistici con funzione emotiva (centrata sul parlante) o conativa (centrata sull’ascoltatore). Si veda eh ([ε] aperta) che, a seconda dell’intonazione, manifesta “perplessità”, “rincrescimento”, “compatimento”, “sdegno” ecc.; éhi, usata per richiamare l’attenzione; ehm (simile ad un colpetto di tosse) che esprime “imbarazzo”, “reticenza”, “minaccia”. Le i. sono atti linguistici completi, sia pure sinteticamente e simbolicamente espressi, e come tali non presentano relazioni sintattiche con gli altri elementi degli enunciati in cui compaiono. Questa condizione può riguardare anche parole, o sintagmi anche ellittici (v. ellissi) che perdono in questo caso ogni funzione di denotazione: per Bacco!; accidenti!

 

INTONAZIONE. Tratto prosodico (v. prosodia), consistente nella variazione della curva melodica di un enunciato, che può avere funzione distintiva o espressiva. L’i. ascendente caratterizza, ad esempio, le frasi interrogative rispetto alle dichiarative. L’i. può servire a mettere in evidenza anche particolari elementi della frase, allo scopo di segnalarne il valore di “argomento”. Ad esempio: hai visto Carlo ieri? / hai visto Carlo ieri? (v. tema-rema).

 

INTERLOCUTORE. La persona a cui si rivolge il parlante in una concreta situazione comunicativa, con una funzione di appello.

 

INTERLOCUTORI. I partecipanti ad un’azione comunicativa in una situazione di comunicazione.

 

INTRANSITIVO. Particolare dimensione semantica del lessema verbale (v. verbo) manifestata dalle sue costruzioni.

 

INVARIANTE. È sinonimo di “costante” nella linguistica formale, e corrisponde all’identità nel senso che può manifestarsi come classe di varianti, ma conserva sempre lo stesso valore.

 

IPERCORRETTISMO. Fenomeno di trasformazione di una parola attraverso l’intervento del parlante che crede di correggere elementi apparentemente anomali rifacendosi ad una forma linguistica od ortografica. Nell’italiano parlato nell’Italia meridionale, dove nei dialetti per legge fonetica il gruppo [mb] subisce l’assimilazione in [mm] (es. palomma rispetto al latino palumbes “colomba”), si può avere per i. la forma gomba, invece di gomma, in quanto quest’ultima forma è stata percepita come erronea.

 

IPERÒNIMO. “Che verdura hai comprato?” “Con che mezzo vai?” Lessema il cui significato è contenuto o implicato in quello di altri lessemi (iponimi): verdura [= spinaci, bietole, broccoli ecc.]; mezzo (di trasporto) [= auto, moto, bicicletta, autobus, gondola ecc.]. L’i. può essere usato in luogo di uno qualunque degli iponimi.

 

IPÒNIMO. Lessema subordinato a un altro per il significato (v. iperònimo).

 

IPOTASSI. Tipo di costruzione caratterizzato da una relazione di dipendenza di una o più frasi, dette subordinate, da un’altra che si definisce principale o reggente (es.: pensavo/che saresti venuto/sebbene piovesse). L’i. è manifestata da un punto di vista linguistico: 1) dal modo verbale (soprattutto il congiuntivo, ma anche le cosiddette forme nominali del verbo: participio, gerundio, infinito); 2) dall’impiego di congiunzioni subordinanti (che, sebbene, affinché, poiché, quando ecc.); 3) da pronomi ed aggettivi relativi e interrogativi. Le frasi subordinate funzionano semanticamente come espansioni della predicazione realizzata dal verbo della frase principale: pensavo (qualcosa) --> pensavo che saresti venuto. Nella grammatica generativo-trasformazionale l’i. è il risultato di una trasformazione per cui una o più frasi della struttura profonda vengono incassate in un’altra detta frase matrice.

 

IPOTESI. Secondo la grammatica generativa l’apprendimento linguistico avverrebbe attraverso la formulazione di i. sulla struttura linguistica, che confrontate con i dati (cioè con la lingua che si sente parlare) permetterebbero di verificare la grammaticalità dell’enunciato prodotto. La costruzione di i. sempre più adeguate è alla base della glottodidattica di ispirazione generativista.

 

ISOGLOSSA. Linea immaginaria che, in una rappresentazione cartografica, segna il confine dell’area di diffusione di un fenomeno linguistico di qualunque livello. È termine della dialettologia e della geografia linguistica.

 

ISOLANTE. Nella classificazione tipologica sono definite i. le lingue che esprimono le relazioni grammaticali e sintattiche o le determinazioni semantiche dei lessemi mediante forme libere invariabili e mediante l’ordine delle parole. La forma dei lessemi è spesso monosillabica (ad esempio in cinese) ed è molto diffuso il procedimento della composizione. Nel cinese, che rappresenta un esempio tipico di lingua i., non c’è distinzione formale fra oggetto ed azione, per cui ogni parola può funzionare, in base alla sua posizione nella frase, come nome, come aggettivo o come verbo: hsiao ma = “il piccolo cavallo” (aggettivo - nome), mentre ma hsiao = “il cavallo è piccolo” (nome - verbo). Le determinazioni temporali sono espresse mediante perifrasi: wo kuai lai = “io presto venire” = “io verrò”.

 

LABIALE. Luogo di articolazione caratterizzante certi fonemi consonantici, nella realizzazione dei quali il diaframma è costituito dalle due labbra (bilabiali, /p/, /b/, /m/), dagli incisivi superiori ed il labbro inferiore (labiodentali, /f/, /v/).

 

LABIODENTALE. v. labiale.

 

LABIOVELARE. Luogo di articolazione caratterizzante fonemi vocalici (/u/, /o/) oppure consonantici (/kw/ in cuore, quadro) nella cui realizzazione sono presenti simultaneamente un diaframma velare e uno labiale.

 

LANGUE. v. langue e parole.

 

LANGUE ~ PAROLE. La distinzione è stata posta da F. de Saussure all’interno della nozione più generale di linguaggio. La l. rappresenta una dimensione astratta e sociale, per cui si può dire che una determinata lingua storica (es. l’italiano) esiste nella sua interezza solo nella totalità dei parlanti. La p. invece è sempre un atto individuale di volontà e di intelligenza che permette la concreta realizzazione della lingua ad opera di un individuo. Rovesciando i termini si può dire tuttavia che ogni individuo possiede come proprio patrimonio una l. che realizza mediante gli atti di p. in una dimensione sociale. Quest’ultimo punto di vista, che è presente già in Saussure, si ritrova nelle nozioni proposte da Chomsky di competenza ed esecuzione. Nella teoria dell’informazione la distinzione fra l. e p. ricopre quella fra codice e messaggio.

 

LEGA LINGUISTICA. Manifestazione di una parentela acquisita da parte di un gruppo di lingue in uno stesso ambito storico geografico. (v. parentela). Un esempio classilo di l.l. è costituito dalle lingue parlate nella penisola balcanica: bulgaro, romeno, neogreco, albanese ecc., che condividono vari fenomeni linguistici non imputabili ai loro sottogruppi indeuropei di appartenenza (greco, albanese, slavo, neolatino), ma piuttosto ai fenomeni di contatto linguistico (adstrato).

 

LEGGE FONETICA. Nella linguistica diacronica si indica con questo termine un mutamento fonetico che avviene regolarmente in una certa lingua in un certo periodo della sua storia, e che può essere riassunto da una formula. Es. latino classico /e:/ (lunga) > latino preromanzo /e/ (chiusa). Le l. f. sono un importante elemento di caratterizzazione di una lingua storica rispetto alla lingua madre e alle altre lingue della stessa famiglia.

 

LATERALE. Articolazione caratteristica di certi fonemi con diaframma su uno o su ambedue i bordi della lingua. In italiano si distinguono una l. dentale (/l/) ed una l. palatale (/y/), quest’ultima di articolazione sempre intensa (cfr. filo ~ figlio).

 

LESSEMA. “Io credo eh’ei credette ch’io credesse”. Elemento formale minimo del livello lessicale, consistente in un’unità di valore semantico costante, suscettibile di essere combinata con uno o più morfemi. Le parole monolessematiche sono per lo più pronomi, avverbi, congiunzioni, preposizioni. I l. costituiscono un inventario aperto. Il valore del termine lessema coincide in gran parte con quello del termine radice, usato soprattutto nella linguistica storica e comparativa.

 

LESSICO. “Idee verdi incolori dormono furiosamente” (Chomsky). Nome con cui si designa di solito: I) il repertorio dei lessemi; 2) il livello ad essi corrispondente nella struttura linguistica. In rapporto al primo valore il l. si caratterizza come una classe teoricamente aperta, a differenza dei repertori di morfemi e fonemi che sono per definizione classi chiuse (prospettiva lessicografica). Dal secondo punto di vista (prospettiva lessicologica) il l. si caratterizza come un sistema, e viene studiato in relazione ai rapporti semantici fra le parole ed alla loro possibilità di combinazione sintattica. La struttura del l. si rivela basata su tipi paradigmatici di combinazioni di semi (es.: [sesso femminile] ~ [sesso maschile]; [umano] ~ [equino] ~ [ovino] ~ [api] = donna ~ uomo, giumenta ~ stallone, pecora ~ montone, pecchia ~ fuco; oppure: [durata] ~ [non durata]; [percezione visiva] ~ [percezione acustica] = guardare ~ vedere; ascoltare ~ udire. v. campo semantico, significato). Ma la struttura del l. può essere interpretata anche considerando i suoi rapporti con la sintassi. In questa prospettiva si constata che la presenza di certi tratti semantici impedisce alcune combinazioni delle parole e ne impone altre (restrizioni selettive). Nella grammatica generativa il l. in quanto componente profondo, è concepito non come un elenco di parole, ma come un insieme di informazioni semantiche, fonologiche, sintattiche che predeterminano le proprietà corrispondenti delle parole concrete. Ad esempio il tratto [- concreto] intrinseco nella parola idea non consente il sintagma idee verdi, in quanto gli aggettivi di colore costituiscono una classe di termini che possono combinarsi solo con altri che abbiano il tratto intrinseco [+ concreto] (erba verde).

 

LESSICOGRAFIA. L’insieme dei problemi teorici e pratici connessi con la descrizione del lessico nel suo primo significato (repertorio di lessemi). La l. consiste soprattutto nella redazione di vocabolari, sia generali sia speciali. Nozioni tipiche della l.. sono quelle di arcaismo, neologismo, prestito, calco ecc.

 

LESSICOLOGIA. Studio della strutturazione del lessico.

 

LESSICOSTATISTICA. Studio quantitativo del lessico in un testo o in una serie di testi. La l. opera con i parametri della frequenza (quante volte una parola compare in un testo) e del rango (il suo numero nella lista dell’ordine di frequenza). Secondo l’equazione di Zipf f. r. = costante (cioè il prodotto della frequenza e del rango è una costante). Ad esempio se in un testo una parola ha frequenza 300 e rango 10, la parola che ha rango 100 comparirà 30 volte nello stesso testo (f. r. = 3000). Un testo qualsiasi, secondo Guiraud, è costituito nella sua massima parte da un numero molto limitato di parole che si ripetono: i 100 lessemi più comuni coprono il 60% del testo, i 1000 lessemi più comuni 1’85%, i 4000 lessemi più comuni il 97,5%. In quest’ultimo rapporto il vocabolario meno comune è ristretto al solo 2,5% di un certo testo. La l. ha applicazioni importanti nella stilistica, nella glottodidattica, nella psicolinguistica, nella sociolinguistica, nella glottocronologia, nella traduzione automatica.

 

LINEARITÀ. Proprietà del significante linguistico che si manifesta secondo la dimensione del tempo (successione di suoni). Nella scrittura la l. del significante si manifesta come linea spaziale (v. catena).

 

LINGUA. La più importante delle forme codificate di comunicazione umana, oggetto di studio della linguistica secondo punti di vista diversi. Saussure considera la l. come un sistema di segni arbitrari e distingue la sua dimensione sociale, langue, dall’uso individuale, parole. Langue e parole sono manifestazione della facoltà generale del linguaggio. Linguaggio, langue e parole rappresentano tre aspetti riconoscibili in ogni manifestazione della l. 1) l’aspetto universale; 2) l’aspetto storico; 3) l’aspetto individuale. I punti di vista diversi applicati a uno di questi aspetti comportano definizioni assai diverse della l. Per gli strutturalisti essa è un “sistema di sistemi” o un sistema di valori puri (funzionalismo, glossematica). Per Sapir è un sistema di simboli prodotti per comunicare idee, emozioni e desideri (mentalismo). Per Bloomfield è una risposta ad uno stimolo (si parla in luogo di reagire direttamente) che agisce a sua volta da stimolo sull’interlocutore (comportamentismo). Per Chomsky è la capacità innata dei parlanti nativi di riconoscere e di produrre frasi conformi alla grammatica di una lingua particolare (grammatica generativa).

 

LINGUA ARTIFICIALE. Una lingua inventata con lo scopo di migliorare la comunicazione internazionale. Le l. a. si basano di solito su elementi lessicali o grammaticali d-sunti da lingue storiche (es. il latino) e combinati per lo più con tecniche agglutinanti, e secondo una regolarità paradigmatica assoluta. La più nota l. a. è l’esperanto.

 

LINGUA MADRE. Si definisce così, nella linguistica comparativo-ricostruttiva, la lingua (attestata o ricostruita) di cui una o più lingue storiche rappresentano l’evoluzione. Il latino è la l. m. attestata delle lingue neolatine o romanze (= lingue figlie, fra cui l’italiano); l’indeuropeo è la l. m. ricostruita di una vasta famiglia linguistica dell’Europa e dell’Asia.

 

LINGUA MISTA. v. mescolanza linguistica.

 

LINGUA NATURALE. Nella terminologia di certa linguistica formale di impostazione generativa si definisce così qualsiasi lingua propria di un parlante nativo in quanto non confondibile con i linguaggi artificiali dei calcolatori o con le lingue artificialmente costruite (v. lingua artificiale).

 

LINGUA STANDARD. In sociolinguistica si designa come s. la varietà linguistica usata come mezzo di comunicazione abituale da una comunità di parlanti che è la più ampia possibile in un territorio politicamente unificato. Il concetto di s. implica il superamento delle varietà, come risultato di un processo di pianificazione. Da un punto di vista diatopico, la varietà s. coincide di solito con un dialetto, spesso, ma non necessariamente parlato nella capitale. Da un punto di vista diastratico coincide con la lingua dei ceti educati (si pensi ai “ben parlanti” manzoniani), da un punto di vista diafasico, con il registro medio.

 

LINGUA STORICA. Codice di comunicazione linguistica riferibile a un periodo cronologico preciso, a un determinato contesto geografico, a un popolo e a una cultura di cui sia manifestazione diretta, attraverso testi orali o scritti. Es. il latino classico, l’ebraico biblico, l’italiano del Duecento, l’inglese shakespeariano.

 

LINGUAGGIO. Facoltà generale di esprimere, rappresentare e comunicare mediante sistemi di segni. Come tale non è peculiare della specie umana (esistono sistemi di comunicazione animale: api, uccelli, scimmie); l’uomo tuttavia la possiede al massimo grado e la lingua ne costituisce la manifestazione più importante.

 

LINGUISTICA CONTRASTIVA. Confronto sistematico fra due lingue allo scopo di individuare le somiglianze e le differenze strutturali. Il fine della l.c. è l’insegnamento di una lingua seconda, o la soluzione di problemi connessi con la traduzione.

 

LIVELLO. Sotto-sistema individuato dall’analisi funzionalista europea nel sistema o struttura della lingua. Al l. fonologico sono organizzati i suoni; al l. morfologico le forme linguistiche; al l. lessicale le parole; al l. sintattico le frasi; al l. semantico i concetti espressi.

 

LOCUTIVO. Tipo di atto linguistico, indispensabile per la realizzazione di atti illocutivi e perlocutivi, che può essere analizzato a tre livelli: come atto fonetico (produzione di rumori mediante la fonazione); come atto fàtico (produzione di parole, cioè di rumori con una particolare forma e corrispondenti ad una certa grammatica); come atto retico (uso di queste parole per descrivere o rappresentare qualcosa).

 

LOGOCRAMMA. Grafema che indica una parola di una certa lingua facendo riferimento contemporaneamente al significante ed al significato. Particolari tipi di l. sono le sigle, le quali fanno riferimento, abbreviandoli, a sintagmi significativi: es. S.O.S. = inglese save our souls “salvate le nostre anime”. Nell’uso internazionale le sigle acquistano piuttosto un valore ideografico (v. ideogramma).

 

LUNGHEZZA. Tratto distintivo di un’opposizione vocalica in cui sia pertinente la durata articolatoria. /a:/ (lungo) opposto ad /a/ (breve).

 

LUOGO DI ARTICOLAZIONE. Il punto (o i punti) del canale articolatorio, dalla glottide alle labbra, in cui viene realizzato il diaframma. v. labiale, dentale, palatale, velare, labiovelare.

 

MARCA. Uno dei mezzi universali per la realizzazione delle opposizioni fra le unità linguistiche. Il suo impiego è stato individuato inizialmente nella fonologia e nell’esame dei casi di neutralizzazione. Viene considerato marcato il termine che ha un uso più ristretto, cioè che non compare nella situazione di neutralizzazione (in italiano /ε/ aperta è il membro marcato dell’opposizione perché compare solo in sillaba accentata, mentre /e/ compare in sillaba accentata ed in sillaba atona). La neutralizzazione rappresenta quindi l’eliminazione della m. Il termine non marcato ha sempre due significati di lingua: il primo è quello che assume nell’opposizione, il secondo quello che si manifesta nella neutralizzazione. Cosi uomo ha il significato di “individuo umano maschile” in opposizione a donna e di “individuo umano maschile adulto” in opposizione a ragazzo (es. scarpe da [uomo]); ma ha anche il significato estensivo “individuo umano” fuori di queste opposizioni (es. l’[uomo] è mortale). Questa caratteristica permette di individuarlo come il membro non marcato delle due opposizioni lessicali.

 

MARCATO. v. marca.

 

MEDIO. v. diatesi.

 

MENTALISMO. “La lingua, come struttura, è nel suo aspetto interno lo stampo del pensiero” (Sapir). Orientamento psicologico nella linguistica americana che concentra l’attenzione sulle manifestazioni linguistiche in quanto simboli del pensiero urnano. Nell’ottica di Sapir la linguistica e in particolare la tipologia diventano guide per la comprensione di una “geografia psicologica” della cultura, in quanto il mondo dei concetti viene riflesso e sistematizzato in modo diverso nelle strutture delle singole lingue (v. relativismo linguistico). In senso opposto procede il m. della grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky, che va alla ricerca degli aspetti innati ed unitari manifestati nella competenza linguistica.

 

MESCOLANZA LINGUISTICA. Fenomeno di contatto fra due o più lingue a cui si riconduce l’origine di tipi diversi di lingue miste, quali i sabir, i pidgin e i creoli, oppure i fenomeni di interferenza designati coi nomi di sostrato, superstrato, adstrato.

 

MESSAGGIO. L’atto linguistico visto nel quadro della teoria della comunicazione. In questo senso il m. è uno dei sei punti di vista previsti da Jakobson.

 

METAFONIA. Modificazione della vocale accentata di una parola a causa dell’influsso della vocale della sillaba seguente. La m. non avviene in toscano; è invece frequente, ed in certi casi regolare, nei dialetti meridionali dove contribuisce a creare opposizioni morfologiche: es. in napoletano [o] passa ad [u] per effetto di una [u] finale: spuse (da sponsum) “sposo” opposto a spose (da sponsam) “sposa”; come si vede, dato il carattere indistinto della vocale finale, l’opposizione maschile/ femminile è realizzata nella sillaba radicale dai fonemi /u/ (metafonizzato) ed /o/ (non metafonizzato).

 

METALINGUAGGIO. “amore è maschile (ma l’amore no!)” Ogni linguaggio impiegato per descrivere un linguaggio. La linguistica si serve di un suo m. caratterizzato da un vocabolario tecnico (terminologia linguistica) e da regole specifiche. Ad esempio i sostantivi quando sono elementi del m. non devono avere l’articolo: fiume è maschile singolare (cfr. invece il fiume è profondo); inoltre ogni elemento del m. è nominato secondo norme convenzionali: in italiano i verbi si citano all’infinito (amare è transitivo attivo); nella rappresentazione scritta gli elementi del m. sono graficamente marcati (mediante il carattere corsivo), e sono scritti sempre con la lettera minuscola iniziale anche quando compaiono all’inizio di un testo o dopo un punto.

 

METALINGUISTICA. Funzione dell’atto linguistico centrata sul codice impiegato che si manifesta, ad esempio, nelle richieste di precisazione o nelle puntualizzazioni riguardo a ciò che viene enunciato (ho detto casa, non cosa; in che senso lo dici?).

 

METÀTESI. Indica un’inversione nell’ordine di successione dei fonemi nella parola. I casi di m. sono frequenti nella lingua parlata e anche nei dialetti; più rari nella lingua letteraria. Due esempi di m. che riguardano /r/ sono farnetico da frenetico, e formaggio dal francese fromage. M. di /l/ si riconoscono in parole come chioma, che presuppongono una fase cloma rispetto al latino comula.

 

MINIMO. Si denota con m. il carattere delle unità più piccole dei diversi livelli, che non sono ulteriormente scomponibili. Gli elementi m. sono indicati, nella linguistica formale, con il suffisso -ema.

 

MODO. Categoria verbale (imperativo, congiuntivo, condizionale ecc.) che esprime un atteggiamento del soggetto nei rigardi di ciò che viene enunciato (ipotesi, dubbio, desiderio, comando ecc.). Il m. indicativo, usato nelle proposizioni dichiar­tive, rappresenta il termine non marcato nelle opposizioni con tutti gli altri casi, che infatti tende a sostituire almeno nella lingua parlata: es. io credo che tu sappia, ma anche io credo che tu sai; oppure fai questo! (indicativo) invece che fa’ questo! (imperativo); o ancora se l’avessi saputo, sarei venuto, ma anche se lo sapevo, venivo.

 

MODO DI ARTICOLAZIONE. Le diverse realizzazioni del diaframma articolatorio. v. occlusivo, affricato, fricativo, vocalico, nasale, sordo, sonoro.

 

MONEMA. Unità di prima articolazione, secondo la teoria di Martinet. Il m. è un’unità di scelta nell’ambito di un atto di enunciazione. Nella frase la casa è grande si riconoscono sei m.: 1) articolo determinativo; 2) sostantivo casa; 3) verbo essere; 4) presente; 5) indicativo; 6) aggettivo grande.

 

MONOTTONGAZIONE. Trasformazione di un dittongo in una vocale: es. latino cauda italiano coda.

 

MORFEMA. “Amor che a nullo amato amar perdona.” Elemento formale minimo del livello morfologico, consistente in un’uniche combinata con il lessema ne modifica parzialmente il valore inserendolo in particolari paradigmi 1) grammaticali, 2) lessicali. Nel primo caso abbiamo un m. flessionale (am-iamo, am-ando, am-ai, amor-e, amor-i), nel secondo un m. derivativo (am-abil-(e), am-or-(e), am-or-ett(o)...). Lo stesso m. può apparire in forme diverse, cioè in varianti morfologiche o allomorfi (-are, -ere, -ire sono allomorfi del m. flessionale “infinito”). Nei sostantivi invariabili bisogna riconoscere morfema zero, la cui presenza si rivela nell’accordo (la piccola città, le piccole città, il tram, i tram).

 

MORFO-FONEMA. Unità fonologica costituita da due o più fonemi che alternano nelle varianti di uno stesso morfema: es. [/k/ e /tς/] in amic-o amic-i, [/g/ e /dζ/]in mag-o mag-ico.

 

MORFOLOGIA. In accordo col suo valore etimologico (studio delle forme linguistiche) il termine m. designa lo studio di tutte le variazioni formali delle parole che esprimono le più diverse categorie grammaticali. Rientrano nella m. i procedimenti di derivazione e di flessione, e gli strumenti con cui essi sono espressi (v. apofonia, prefissi, infissi, suffissi, desinenze).

 

NASALE. Modo di articolazione caratterizzante certi fonemi vocalici e consonantici nella realizzazione dei quali l’apertura del diaframma rinovelare permette il passaggio dell’aria nelle cavità nasali determinandone una risonanza nasale. Nelle consonanti n. il diaframma orale è chiuso (/m/, /n/) come nelle corrispondenti occlusive (/b/, /d/) e nell’opposizione è pertinente il tratto di nasalità.

 

NEOLOGISMO. Elemento lessicale di recente ingresso nella lingua. I n. possono essere costruiti secondo i modelli normali di composizione o di derivazione (si pensi agli ormai datati menefreghismo o qualunquismo), oppure secondo lo schema delle parole straniere prese a modello (cartone animato, fantascienza, quest’ultimo a sua volta generatore di altri n.: fantapolitica). Costituiscono di fatto dei n. le parole tradizionali usate con significati nuovi (pentito, dissociato), o con significati propri di parole straniere corrispondenti (si pensi a evidenza col significato “prova”, rifatto sull’inglese evidence).

 

NEUTRALIZZAZIONE. L’eliminazione di un’opposizione fra due unità in particolari contesti. In fonologia, ad esempio, si constata che l’opposizione tra i fonemi /ε/ aperta ed /e/ chiusa in italiano non si realizza in sillaba atona, dove compare sempre /e/ chiusa, che rappresenta di fatto i due fonemi in opposizione (arcifonema). Ad es. p[e]sca, p[ε]sca, ma pescheto e pescatore entrambi con /e/ chiusa. La n. interessa anche unità di prima articolazione (v. marca).

 

NOME. Nelle lingue flessive, classe di lessemi individuata dalle particolari categorie grammaticali che esprime esclusivamente (genere, caso) o in accordo con il verbo (numero). La classe n. così definita comprende il sostantivo, l’aggettivo, il pronome, l’articolo.

 

NOME PROPRIO. Convenzionalmente è il nome di un’entità individuale e non di una classe di referenti, che può coincidere con una persona (antroponimo: Giovanni), un luogo (toponimo: Milano), un corpo celeste (Marte, Saturno), un animale (Fido, Argo, Ribot), o un oggetto (il Big Ben, il Pantheon). I n.p. quando sono usati nel discorso hanno carattere deittico (ho visto Carlo = “quel Carlo che io e tu conosciamo”; v. deissi), mentre quando sono usati in una narrazione hanno carattere anaforico (Renzo = “quello di cui il testo ha già parlato”; v. anafora). Il n.p. pur essendo fondamentalmente denotativo può esprimere connotazioni geografiche (Gennaro, Ambrogio), sociali o culturali (i vari Alfredo, Gilda, di verdiana memoria, o i sempre più rari nomi nobiliari: Aimone, Oddo ecc.). Dal punto di vista del referente sono possibili varie distinzioni. Si possono citare i patronimici, rappresentati da molti cognomi che mostrano l’antica desinenza -i del genitivo (es. Rossi = (figlio) del “rosso”); più rari i matronimici (si pensi a cognomi come Della Vedova, Dellapiccola). Fra i toponimi si distinguono oronimi, “nomi di rilievi” (Cervino); idronimi, “nomi di corso d’acqua” (Po); coronimi, “nomi di regione” (Lazio, Calabria); poleonimi “nomi di città” (Pisa, Bologna). La convenzione metalinguistica vuole che i n.p. siano rappresentati con la lettera iniziale maiuscola.

 

NORMA. È la manifestazione della lingua accettata e fissata come canonica da una comunità di parlanti. In questo modo la n. si colloca ad un livello intermedio fra la langue (sistema di possibilità astratte) e i vari atti concreti di parole. Ad esempio, pur essendo possibile a livello di langue italiana la formazione di femminili in -essa, rispetto a maschili in -e (studente~studentessa, barone~baronessa), la n. italiana non contempla *serpentessa e *piccionessa. Allo stesso modo esiste una pronuncia “normale” di /r/ in italiano, rispetto alla quale una pronuncia di tipo francese appare come anomala. I fatti di n. si vedono molto chiaramente nei sintagmi: si dice normalmente mal di denti e non ‘male ai denti’, bianco e nero e non ‘nero e bianco’, e si pronuncia [a kkasa] e non [a kasa] per dire a casa. Un esempio vistoso di come agisce la n., questa volta sul sistema grafico, è l’ortografia che stabilisce, anche in modi contraddittori, come si scrive una parola (cfr. cuore e liquore).

 

NORME AREALI. In dialettologia e geografia linguistica, criteri per stabilire l’antichità relativa di due o più forme linguistiche presenti in un territorio. Le n. a. sono intuitive: esse descrivono la circostanza ovvia per cui i territori meno esposti alla comunicazione conservano le forme più antiche. Per l’applicazione delle n. a. è necessario pregiudizialmente individuare il punto di partenza e l’area di diffusione dei fenomeni innovativi. Ad esempio nell’area linguistica neolatina corrispondente al territorio dell’impero romano, centro di innovazione sarà Roma, e zone conservative quelle arealmente isolate (Sardegna, Lucania), o quelle marginali (Spagna e Romania), o, in generale, tutte le colonie rispetto all’Italia.

 

NUCLEO. v. funzioni sintattiche.

 

NUMERALE. Classe di lessemi che designano numeri (uno, due, dieci...), rapporti numerici (primo, secondo, terzo...), o quantità numerabili (decine, centinaia, migliaia...). Da un punto di vista etimologico i n. costituiscono in ciascuna lingua uno dei settori lessicali di origine più antica, ed hanno quindi una rilevanza etnolinguistica. Ad esempio, tracce di un’antica numerazione in base 4 emergono in.latino, non solo dalla forma di duale octo (“8”), ma anche dalla designazione del numero immediatamente successivo, novem (“9”), cioè “il numero nuovo” (latino novus, “nuovo”).

 

NUMERO. Categoria grammaticale non universale che determina l’accordo fra elementi nominali e fra nome e verbo. L’opposizione canonica di n. è fra singolare e plurale, in cui il singolare rappresenta il membro non marcato (es. il viaggiatore è tenuto ad esibire il biglietto, ove l’indicazione è rivolta a tutti i viaggiatori; v. marca). Il duale, assai più raro, è di solito proprio di realtà che vanno naturalmente o istituzionalmente in coppia (“occhi”, “mani” ecc.): in italiano ne rimane una traccia nella desinenza -o delle parole amb-o, ott-o, quattr-o. Per le espressioni lessicali di vari aspetti della quantificazione, numerica e non, della realtà, v. numerale, collettivo, quantificatore, singolativo.

 

OCCLUSIVO. Modo di articolazione caratteristico di certi fonemi consonantici nella realizzazione dei quali il flusso dell’aria è momentaneamente interrotto da un diaframma orale (velare, palatale, dentale, labiale o labiovelare), mentre è chiuso anche il diaframma rinovelare, per cui l’aria non può passare attraverso il naso.

 

OGGETTO. v. funzioni sintattiche.

 

OMONIMIA. “Cos’è un tasso?” Assoluta identità del significante in parole con significati diversi. Ad esempio: tasso, = “mammifero carnivoro con striscia nera ai lati della testa bianca”; tasso2 = “albero sempreverde delle conifere”; tasso3 = “rapporto fra due quantità (t. di natalità, di interesse ecc.)”. L’o. è il risultato casuale di una convergenza di parole di origine diversa (nell’esempio tasso, deriva da una forma germanica, cfr. tedesco Dachs; tasso2 viene dal latino taxus; tasso3 deriva dal verbo tassare).

 

ONOMASIOLOGIA. Settore della lessicologia che studia le spinte psicologiche, sociologiche, storico-culturali che stanno alla base dell’uso di certe designazioni. Nell’o. il procedimento descrittivo va quindi dalla cosa, o dall’idea, alla parola. Ad esempio la libellula può essere designata come fuso, cavalocchio, prete, sposa, signora, monachella, saetta, perla, civettone, parole in cui risultano pertinenti aspetti diversi del corpo dell’animale. L’o. ha importanti implicazioni nella storia delle parole e nell’etimologia. Il “tabu” linguistico è responsabile di designazioni metaforiche di certi animali in alcune lingue indeuropee; così l’orso è il “lupo delle api” (Beowulf in antico inglese), il serpente è “quello che striscia” (serpens in latino) ecc.

 

ONOMASTICA. Lo studio dei nomi propri. Si divide in antroponomastica, studio dei nomi di persona, ed etno-toponomastica, studio dei nomi di popolo e di luogo. L’o. raccoglie una serie di indizi utili per gli studi storici e storico-linguistici. Si pensi agli effetti delle dominazioni araba e germanica nell’Italia medievale, riscontrabili in toponimi ed antroponimi (in Sicilia Gibellina e Mongibello, dall’arabo gebel “monte”; i vari Gualdo in corrispondenza di germanico Wald “bosco”, e i nomi - frequentissimi - Federico, Roberto, Carlo ecc.).

 

ONOMATOPEA. Segno linguistico di carattere iconico che riproduce un suono naturale (es. ululato, miagolio, belato, tintinnio, squittio), oppure un rumore caratteristico (din-don, tic-tac). Il procedimento dell’o. è universale e sembra contraddire il principio dell’arbitrarietà del segno linguistico. Tuttavia non esiste perfetta identità fra le o. delle diverse lingue (un gallo inglese fa cock-a-doodle-doo, un gallo francese fa co-corico) e inoltre questo procedimento ricopre una minima parte del lessico di una lingua.

 

OPPOSIZIONE. “Chi dice donna dice danno”. Organizzazione sistematica delle differenze linguistiche che consiste nello stabilire una relazione fra due o più termini che hanno qualcosa in comune, e sono distinti da quello che hanno di diverso. L’o. fra i fonemi, teorizzata da N.S. Trubeckoj fondatore della fonologia, si realizza mediante i tratti distintivi:

 

  1. di sonorità: /p/~/b/
  2. o. di nasalità: /b/~/m/ ma anche /d/~/n/
  3. o. di apertura: /a/~/i/ ecc.

 

Un esempio di o. morfologica è la differenza fra grado positivo e superlativo nell’aggettivo (grande~grandissimo, bello~.bellissimo); anche buono~ottimo sono in o. in quanto hanno in comune il concetto di base e sono differenziati dal grado positivo e superlativo di questo stesso concetto. Le o. possono essere privative (presenza~assenza di una qualità: /b/ sonoro~/p/ non sonoro; fecondo~sterile), graduali (presenza in misura diversa della stessa qualità: /a/ massima apertura /e/ media /i/ minima; buono~.migliore~ottimo) o equipollenti (presenza di qualità diverse: /p/ labiale~/t/ dentale~/k/ velare; biondo~bruno).

 

ORDINE BASICO. Tipologia dell’ordine di comparsa nella frase di alcuni elementi linguistici in vista di una classificazione delle lingue. In relazione all’o. b. si distinguono le lingue che fanno uso di preposizioni da quelle che usano posposizioni, e analogamente quelle che premettono o fanno seguire al nome gli aggettivi qualificativi, i dimostrativi, gli articoli, i numerali e i quantificatori. Il più importante criterio è tuttavia rappresentato dall’ordine relativo di Soggetto, Verbo e Oggetto, in frasi dichiarative con S e O nominali. Questi tre criteri sono strettamente interconnessi in quanto descrivono la struttura sintattica del rapporto di determinazione (determinante prima o dopo determinato). È stato constatato che i tipi più comuni di o. sono SVO, SOV e VSO. Si è notato che in relazione ai due o. SOV e VSO le particelle relazionali tendono a collocarsi rispetto al nome dalla stessa parte in cui si colloca il V: pertanto le lingue VSO sono sempre preposizionali, le lingue SOV sono spesso posposizionali.

 

ORTOGRAFIA. L’insieme delle norme che regolano l’uso della scrittura. L’o. si riferisce soprattutto alla grafia convenzionale delle parole, senza pretese di sistematicità (caso emblematico cuore e quadro, acqua e soqquadro). Le irregolarità dell’o. e la situazione di asimmetria nella quale essa si trova rispetto alla lingua parlata, variano da lingua a lingua, e sono dovute al carattere conservativo delle tradizioni grafiche, che non si adeguano con facilità alle evoluzioni fonetiche. Ad esempio la norma ortografica che richiede l’uso del grafema c in cuore, cuoco, scuola ecc. è di natura etimologica in quanto queste parole in latino presentavano tutte la sequenza fonica e grafica [co] = cor, cocus, scola; quadrum invece presentava anche in latino il digramma qu a rappresentare il suono labiovelare [kw]. L’o. è correlata sul piano fonico alla pronuncia.

 

PALATALE. Luogo di articolazione caratteristico di certi fonemi vocalici e consonantici nella cui realizzazione il diaframma si colloca fra il dorso della lingua ed il palato duro. Vocali p. /i/, /e/; affricate, fricative, nasali e laterali (v. consonanti).

 

PARADIGMA. Al senso tecnico-tradizionale (lista delle forme flesse di una parola, es. 9. nominale, p. verbale) va aggiunto quello più generale per cui si riconosce un p. in ogni classe di forme linguistiche associate, sostituibili l’una all’altra in uno stesso sintagma. Su ogni termine di un sintagma insiste dunque il p. dei termini che avrebbero potuto comparire al suo posto. (v. selezione e combinazione).

 

PARAFRASI. Riformulazione di un contenuto testuale mediante un testo diverso. La capacità di parafrasare un testo è manifestazione della competenza testuale.

 

PARATASSI. Tipo di costruzione di frasi, caratterizzata dalla giustapposizione di unità che hanno la stessa funzione (es. due principali, o due subordinate dello stesso tipo: domani arrivo, parlo con te e riparto subito; Mario disse che pioveva e che non aveva l’ombrello).

 

PARENTELA. Interpretazione delle somiglianze fra due o più lingue mediante la supposizione di una loro origine comune (v. lingua madre, famiglia linguistica, indeuropeo). In taluni casi la p. si può definire acquisita, come nel caso di lingue di origine diversa che si trovano ad essere parlate con frequenti fenomeni di contatto, in territori contigui (v. lega linguistica). La p. genealogica si manifesta in una serie sistematica di corrispondenze a tutti i livelli (dalla fonetica alla sintassi), mentre la p. acquisita è caratterizzata da fenomeni vistosi ma sporadici (soprattutto dalla forte incidenza dei fenomeni di prestito).

 

PARLANTE NATIVO. Espressione calcata sull’inglese native speaker: indica il parlante di madrelingua, depositario della competenza della propria lingua.

 

PAROLA. “Le parole/sono di tutti e invano/ si celano nei dizionari” (Montale). Secondo la definizione del linguista americano Bloomfield una p. è una forma libera minima, cioè una forma che può stare da sola e che non può essere scomposta in forme libere più piccole. Ad esempio precipitevolissimevolmente è una p. perché nessuno dei morfemi che la costituiscono è autonomo; invece, secondo la definizione data, i (articolo determinativo maschile plurale) non lo sarebbe perché non può comparire da solo (forma legata). Come unità, la parola è identificata: 1) da un unico accento principale (lupomannàro rispetto a lùpo grìgio); 2) dalla collocazione fra due pause; 3) da particolari restrizioni fonologiche che riguardano il suo inizio e la sua fine (ad esempio in italiano nessuna p. finisce per consonante, e alcune sequenze foniche non sono ammesse all’inizio: [rp-], [lt-] ecc.).

 

PAROLA. Attività individuale del parlare: v. langue-parole.

 

PAROLE. v. langue~parole.

 

PARTI DEL DISCORSO. “Nome, pronome, verbo, participio, avverbio, congiunzione, preposizione, interiezione”. Classificazione tradizionale delle parole che risale ai grammatici greci e latini. Il fondamento di questa classificazione è assai controverso: per alcune p. d. d. è stata fatta notare la corrispondenza con certe categorie logiche generali (es. “argomento” e “predicato” = “nome” e “verbo” = il cane corre); per le stesse d’altra parte possono valere considerazioni di carattere morfologico (il “nome” può essere declinato assumendo determinazioni di caso, genere ecc., mentre il “verbo” nella coniugazione esprime persona, tempo, modo ecc.). Questi criteri tuttavia non portano ad individuare p. d. d. veramente universali. Per questo la linguistica moderna tende ad abbandonare queste unità tradizionali ed a sostituirle con categorie linguistiche individuate in base ad una rigorosa definizione formale (monema, morfema, glossema ecc.) o in base alla competenza del parlante di cui la grammatica generativa vuole essere una rappresentazione.

 

PARTICIPIO. Annoverato, nella grammatica tradizionale, fra le parti del discorso, è un aggettivo verbale, che ha la caratteristica di manifestare contemporaneamente categorie grammaticali del nome (genere, numero) e del verbo (tempo). Il sistema italiano conosce come forme produttive i p. presente (sempre attivo) e passato (attivo nei verbi intransitivi, passivo nei transitivi); rimangono invece soltanto tracce del p. futuro latino (venturo, morituro), e del p. futuro passivo, o gerundivo (laureando, moribondo).

 

PASSIVO. v. diatesi.

 

PERFORMATIVO. Tipo di enunciato che non ha la funzione di rappresentare uno stato di cose, ma di compiere un’azione mediante l’atto linguistico stesso (dico, io prometto, ti ringrazio, ordino, ti battezzo ecc.). Gli enunciati p. non sono veri o falsi come gli enunciati constativi, ma possono essere descritti come efficaci o non efficaci in un’azione comunicativa. In pragmatica si definiscono p. sia i verbi che manifestano con il loro stesso valore lessematico l’intenzione del parlante di compiere una certa azione (affermare, supporre, concludere, domandare, ordinare, promettere, permettere, garantire, giurare, ringraziare, scusarsi, congratularsi ecc. = p. espliciti) sia tutti i mezzi linguistici che manifestano questa intenzione (modi verbali, ordine delle parole, intonazione della frase ecc.). In ottica generativa il p. è un predicato astratto del livello semantico profondo, che indica il tipo di atto linguistico realizzato nella formulazione di una frase. Ogni frase quindi presuppone, da un punto di vesta semantico, un p. e un argomento (dico/prometto/domando/ordino... = performativo // qualcosa = argomento).

 

PERIFRASI. Sintagma costituito da due o più parole, semanticamente equivalente ad un’espressione formata da un solo lessema. Es. il fausto evento = il parto; il Santo padre = il Papa. L’articolazione concettuale operata dalla p. può avere diverse funzioni: eufemistiche, di rispetto, scherzose ecc. Una funzione frequentissima è tuttavia quella di evitare la ripetizione di una parola già presente nel testo, per cui la p. è una manifestazione della coesione testuale. Una forma particolare di p. si riconosce nei tempi cosiddetti composti del verbo: storicamente forme perifrastiche come amare habeo e habeo amatum hanno sostituito i paradigmi monolessematici del futuro e del perfetto latino (amabo e amavi).

 

PERIODO. Costruzione di più frasi, governata da regole di coordinazione e di subordinazione (v. paratassi e ipotassi). La tipologia del p. è quanto mai varia; esistono tuttavia costruzioni fortemente standardizzate e paradigmatiche, quali il p. ipotetico, costituito da una frase che esprime la condizione (protasi: se fai questo) ed una che esprime la conseguenza (apodosi: avviene questo).

 

PERLOCUTIVO. Tipo di atto linguistico.

 

PERSONA. “Dramatis personae, cioè i ‘personaggi’ della commedia”. La categoria della p. implica il riferimento alla scena del discorso (deissi) e si manifesta nei pronomi personali, negli aggettivi possessivi e nella coniugazione verbale. Propriamente si può parlare di p. soltanto relativamente all’io ed al tu, dato che la cosiddetta terza p. rappresenta colui che non è coinvolto nel discorso, o la cosa di cui si parla (e quindi sarebbe più esatto parlare di “non p.”). Nell’espressione io vado la prima p. è espressa due volte: si tratta di un fenomeno di ridondanza che giustifica il fatto che in italiano il pronome non sia obbligatorio. In lingue che non esprimono la p. nella flessione verbale, il pronome personale diventa necessario (in inglese I love, they love = amo, amano).

 

PERTINENTE. Ciò su cui si basa la descrizione linguistica è detto p. Poiché la lingua non è un oggetto materiale, la sua descrizione non può avvenire attraverso il riconoscimento di tratti oggettivi, ma solo mediante l’individuazione di elementi di volta in volta capaci di rivelarne il funzionamento come sistema. I tratti p. individuati dalla fonologia sono quelli che consentono di opporre più fonemi fra loro: così nell’opposizione fra /p/ e /b/ sarà p. la sonorità, in quanto il tratto di occlusività e quello di labialità sono posseduti da entrambi i fonemi; invece nell’opposizione fra /b/ ed /m/ sarà p. la nasalità in quanto i tratti sonoro e labiale sono in comune. Quindi nessun tratto è p. in sé, ma la pertinenza dipende di volta in volta dal tipo di opposizione.

 

PIDGIN. Una lingua che si forma come conseguenza di un processo di interazione sociale, che determina mescolanza linguistica. I p. hanno come modello la lingua più prestigiosa, e manifestano una notevole coerenza grammaticale e un vocabolario abbastanza ampio. Essi non sono tuttavia mai usati in situazioni private, e non diventano quindi lingue materne, come invece avviene per i creoli.

 

POETICA. Funzione dell’atto linguistico centrata sul messaggio, per cui i segni di un testo hanno valore in sé, e non in rapporto ai loro referenti (v. comunicazione).

 

POLISEMIA. “Cerchiamo di venirne a capo”. Compresenza di più di un valore di significato nello stesso segno linguistico. Ad esempio, capo può significare: 1) “parte superiore del corpo umano”; 2) “chi comanda su altri uomini”; 3) “estremità di qualcosa” (capo del letto, andare a capo); 4) “ciascuna unità di un grup­po” (capo di bestiame); 5) promontorio. Oppure ferro può avere i seguenti valori: 1) “metallo”; 2) “strumento per lavorare a maglia”; 3) “idem per stirare”; 4) “idem usato in chirurgia”; 5) “catena dei carcerati”; 6) “arma da taglio” (letterario: mettere a ferro e fuoco). La p. si basa su figure retoriche, metafore (capo) o metonimie (ferro) fissate ed istituzionalizzate. Negli esempi riportati il primo valore dato corrisponde al significato di base (v. denotazione).

 

POSPOSIZIONE. Unità linguistica invariabile che segue il nome, con le stesse funzioni della preposizione. In latino la preposizione cum si manifesta anche come p.: mecum da cui l’italiano meco (“con me”). La p. di regola si agglutina al nome che “regge” (v. enclisi). La presenza in un sistema linguistico di p. o preposizioni è uno dei parametri considerati per l’individuazione dell’ordine basico, e costituisce pertanto un tratto pertinente nella classificazione tipologica.

 

PRAGMATICA. La disciplina che studia l’uso del linguaggio nel quadro della comunicazione umana. In quanto tale la p. è parte sia della semiologia, sia della linguistica della parole. Campi privilegiati di studio della p. sono le espressioni indice, l’appropriatezza degli enunciati e le condizioni di riuscita degli atti linguistici. In quanto tiene conto del contesto la p. ha numerosi punti di contatto con la psicolinguistica e la linguistica del testo.

 

PREDICATO. v. funzioni sintattiche.

 

PREDICAZIONE. “Il sole è caldo. Mario corre.” Rapporto semantico che esprime una relazione fra un’espressione referenziale (= soggetto) e una proprietà che le viene attribuita (= predicato).

 

PREFISSO. Tipo di affisso che precede immediatamente la radice determinandone il significato e tendendo a costituire con essa una forma linguistica fissa, in certi casi non più analizzabile. Ad esempio il p. negativo in- (di in-vincibile) non è più percepito come presente nelle parole incinta e infante, il cui significato letterale ed etimologico è, rispettivamente, “che non è cinta” e “che non parla”. Molti p. dell’italiano sono antiche preposizioni latine, per lo più con valore locale, che hanno subito un processo di agglutinazione (intervenire, adoperare, definire, combattere, subentrare ecc.).

 

PREPOSIZIONE. Unità linguistica invariabile che precede il nome del quale indica alcune funzioni sintattiche soprattutto in rapporto al verbo. In italiano, come in altre lingue indeuropee moderne, le p. hanno sostituito la funzione dei casi, che così viene espressa in forma analitica: si confronti il latino patris, caso genitivo, con l’italiano del padre (v. grado di sintesi). Sintagma preposizionale è quello formato da una p. e dal nome che essa “regge”. Alcuni sintagmi preposizionali si sono fissati diventando lessemi: de mane (lett. “di mattina del giorno dopo”) è diventato domani.

 

PRESUPPOSIZIONE. Nozione di carattere generale, formalizzata nella logica (una proposizione S presuppone una proposizione SI se la verità di SI è una precondizione della verità o della falsità di S) ed applicata in linguistica sul piano della sintassi, della semantica e della pragmatica. In sintassi si dirà che nella frase il mio cavallo bianco ha vinto il Gran Premio la frase il mio cavallo bianco (incassata) presuppone la frase il mio cavallo è bianco (v. ipotassi). In semantica si dirà che il sema [felino] in gatto presuppone il sema [animato]. In pragmatica sono p. tutte le conoscenze condivise dagli interlocutori al momento della realizzazione degli atti linguistici. La frase il treno è arrivato? presuppone che gli interlocutori sappiano di che treno si tratti.

 

PRESTITO. “Andiamo al bar.” Si designa così in lessicografia una forma lessicale di origine straniera che entra stabilmente nel lessico di una lingua. In alcuni casi la forma di p. è riprodotta molto fedelmente (jet, whisky), in altri casi intervengono fenomeni più o meno marcati di adattamento: ad es. brindisi dal tedesco bring dir’s “(il bicchiere) porto a te”. Un esempio di p. semantico è l’italiano angolo, con il significato tecnico-sportivo dell’inglese corner.

 

PRODUTTIVITÀ. Si dice di ogni procedimento morfologico in quanto capace di manifestarsi in un numero apprezzabile di forme linguistiche, cioè di produrre parole costruite secondo un dato modello paradigmatico. Comunemente si parla di p. dei suffissi: es. i suffissi -ino (diminutivo) -issimo (superlativo) sono molto produttivi; invece il suffisso latino -ior di comparativo ha perso totalmente la sua p. in una fase tarda del latino, ed ha subito un fenomeno di fusione con la radice nelle poche forme che lo conservano (maggiore, migliore, peggiore ecc.).

 

PRONOME. La funzione “originaria” del p. sembrerebbe riconoscibile particolarmente bene nei p. di la e 2a persona (io, tu), nei dimostrativi (questo, codesto, quello) che si riferiscono direttamente alla situazione del discorso, ed al rapporto fra emittente e ricevente. Sarebbe quindi una funzione deittica (v. deissi). L’altra funzione è quella di richiamo e collegamento fra le varie parti dell’enunciato (p. di 3a persona, indefiniti, relativi ecc.; es. il cane che lui aveva visto...). Essa può essere definita anaforica (v. anafora). Da questa seconda funzione deriva il termine che li definisce nel metalinguaggio (latino pro “in luogo di”: pronome = “in luogo di un nome presente altrove nell’enunciato”). Nell’ottica funzionalista i p. manifestano l’economia della lingua.

 

PRONOMI PERSONALI. v. deissi.

 

PRONUNCIA. Termine di valore ambiguo, usato con tre significati paralleli ma distinti: 1) come sinonimo di articolazione; 2) col senso di realizzazione normale dei fonemi di una lingua (ad esempio /r/ italiano ha una p. dentale e vibrante, mentre /r/ francese ha una p. uvulare, cioè con diaframma all’altezza dell’ugola); 3) col senso di realizzazione fonica della lingua scritta (= lettura ad alta voce). In quest’ultimo valore la p. è in correlazione, talvolta asimmetrica, con l’ortografia: ad es. il fonema /ts/ in italiano ha una realizzazione normale intensa, anche quando la norma ortografica prevede una sola z (vizio e vezzo divergono nella grafia, ma sono identici nella p. dell’affricata dentale).

 

PROPOSIZIONE. Termine usato come sinonimo di frase ed enunciato, in quanto concepiti come sintagmi contenenti un soggetto ed un predicato. P. è quindi propriamente un termine della logica, preso in prestito per riferirsi al contenuto semantico di una frase. Le p. si distinguono tradizionalmente in dichiarativa, interrogativa, esortativa, esclamativa (= p. principali) e oggettiva, finale, concessiva, causale, temporale ecc. (= p. secondarie).

 

PROSODIA. L’insieme di caratteristiche foniche quali la durata, l’intonazione, l’accento che hanno una funzione diversa o complementare rispetto a quella dei fonemi. Questi elementi non riguardano i singoli suoni, ma unità più ampie quali la sillaba, la parola e la frase. Ad esempio, nelle parole italiane fato e fatto c’è una diversa durata nella /a/ della prima sillaba (fat-) in rapporto alla diversa intensità della /t/: la sillaba della prima parola è lunga, la sillaba della seconda è breve. Questa caratteristica, come si vede non ha funzione distintiva, ma ha piuttosto una funzione complementare a quella svolta dall’opposizione fonologica /t/~/t-t/. Anche l’accento non interessa mai un fonema, ma una parola, che in tal modo viene identificata in rapporto alle altre parole presenti nella catena: es. non màngio quésta ròba. Nell’esempio i 3 accenti individuano le principali unità significative (in tal senso non màngio costituisce una sola unità). L’intonazione, infine, riguarda la frase, e in particolare la curva melodica di questa, secondo vari tipi di realizzazione (affermativo, interrogativo, esclamativo). Es. mangia. mangia? mangia! Quest’ultimo esempio ci mostra come i fatti prosodici (chiamati anche prosodemi) realizzino alcune funzioni significative in modo autonomo ed insieme complementare rispetto ai fonemi con cui si accompagnano.

 

PROSSEMICA. La disciplina che studia le forme di comunicazione non verbale: gesti, abbigliamento, distanze interpersonali ecc. Una competenza prossemica renderà adeguata la comunicazione non verbale in contesti diversi: l’uso di stringere la mano per salutare, ad esempio, non è frequente nel resto d’Europa come lo è in Italia, ed è del tutto assente in altre parti del mondo. L’uso del nero nell’abbigliamento non è dovunque segno di lutto (in alcuni paesi orientali il lutto è espresso dal bianco).

 

PSICOLINGUISTICA. Studio essenzialmente interdisciplinare (psicologi, linguisti) che si occupa delle connessioni fra l’attività linguistica ed i processi cognitivi. In un’ottica comportamentista la p. ha studiato le modalità di produzione e comprensione dei messaggi verbali, in diverse situazioni (ad esempio negli stati emotivi). In un’ottica generativista la p. si interessa alle modalità di passaggio dalla struttura profonda alla struttura superficiale, mettendole in rapporto con le facoltà generali ed innate quali la percezione, la memoria, l’intelligenza. Campo di studio elettivo della p. è l’apprendimento del linguaggio: connesso a questo è lo studio dei disturbi del linguaggio (v. afasia).

 

QUANTIFICATORE. Classe di lessemi usati come determinanti quantitativi di altri lessemi. Corrispondono ai numerali, o a termini come molto, poco, alquanto, un pizzico, un filo, un sacco...

 

RADICE. Nella linguistica storico-descrittiva si designa con r. la parte della parola che esprime il significato lessicale di base (v. lessema). La r. è di solito invariabile (am-are, am-ore, am-ico ecc.), ma essa può presentarsi secondo alternanze vocaliche e consonantiche che possono specificarne il significato (es. facc(i)-o - fec-i).

 

RANGO. v. lessicostatistica.

 

RAPPORTI ASSOCIATIVI. Espressione che designa genericamente i rapporti paradigmatici (v. paradigma) includendo oltre alle relazioni formali anche quelle semantiche e puramente foniche:

 

RAPPORTI SINTAGMATICI. v. sintagma.

 

RAPPRESENTAZIONE. Funzione universale dell’atto linguistico centrata sul contenuto del messaggio. Le altre funzioni universali sono quelle di espressione e di appello.

 

REFERENTE. “Che cos’è un bacio?” La realtà extralinguistica che sta in rapporto col segno nella referenza. Il r. di sole è “la stella fissa a noi più vicina”. I dizionari monolingui ricorrono spesso, per illustrare il significato dei sostantivi, a definizioni di tipo referenziale.

 

REFERENZA. Il collegamento fra un segno e la realtà (referente). Nella lingua tale collegamento avviene mediante il significato che sta in rapporto necessario, anche se arbitrario (v. arbitrarietà), con il significante. La funzione referenziale della lingua è universale (v. sostantivo).

 

REGISTRO. In sociolinguistica i r. sono varietà diafasiche dipendenti dalla situazione e caratterizzate dall’utilizzazione di certi elementi della lingua standard piuttosto che di altri. Il lessico di una lingua, in rapporto ai r., appare organizzato in classi di parole connesse con situazioni ricorrenti e riconoscibili. In un r. solenne compariranno parole come vettura (piuttosto che macchina o auto), dimora o magione (piuttosto che casa). I r. si dispongono secondo una scala che va da un massimo ad un minimo di accuratezza (r. aulico, colto, ufficiale, medio, colloquiale, informale, popolare, familiare, intimo ecc.).

 

REGOLA. Espressione formalizzata di una regolarità della lingua. Sembra opportuno distinguere fra r. descrittive (es. “in italiano il plurale dei nomi in -o è in -i” oppure: “in inglese il soggetto precede sempre il verbo nelle frasi dichiarative”), e r. interpretative. Ad esempio: “[+N] [+ Umano] [a Maschio] --> [α Maschile]”, spiega come in italiano il genere grammaticale (α Maschile = Maschile o Femminile) sia prevedibile per i nomi (+N) di persona (+ Umano), essendo in relazione col tratto “sesso” (α Maschio = Maschio o Femmina). La grammatica normativa e la linguistica strutturale operano con r. del primo tipo, la grammatica generativa con r. del secondo.

 

REGOLE DI RISCRITTURA. In una grammatica generativa, una serie di istruzioni sintattiche, rappresentate mediante simboli, che permettono di derivare una struttura di frase, assegnandole una descrizione strutturale, o indicatore sintagmatico.

 

Es.

F --> SN SV (Riscrivi Frase come Sintagma nominale + Sintagma verbale)

SV -->Vt SN Vi(Riscrivi SV come Verbo transitivo + SN, oppure Verbo intransitivo)

SN --> A N (Riscrivi SN come Articolo + Nome)

Ogni operazione di riscrittura è rappresentabile con un palco di rami in una struttura ad albero:

 

REGOLE DI TRASFORMAZIONE. Nella grammatica generativa di Chomsky si chiamano r. di t. quelle che spiegano certi rapporti fra le frasi di una lingua naturale, quali il rapporto fra la frase attiva e la frase passiva (Mario ama Giulia / Giulia è amata da Mario), il rapporto fra frasi verbali e frasi nominali (Mario ama Giulia / l’amore di Mario per Giulia) o anche i rapporti stessi fra le frasi di un enunciato (Mario ama Giulia - Giulia è una ragazza - Giulia è alta / Mario ama Giulia che è una ragazza alta). Le r. di t. operano sulla struttura profonda.

 

RELATIVISMO LINGUISTICO. Concezione secondo cui le lingue con le loro diverse strutture condizionano il modo di conoscere la realtà, e quindi più in generale la cultura dei parlanti. Ad esempio la lingua ewe (parlata in Africa nel Togo) distingue cinque verbi diversi, non intercambiabili, in corrispondenza del nostro unico verbo essere. In ewe “essere” re è diverso da “essere” alto, è diverso da “essere” sabbioso, umido, è diverso da “essere” qualcosa o qualcuno, è diverso da “essere” in quanto “esistere”.

 

REPERTORIO. L’insieme delle varietà linguistiche che costituiscono la competenza multipla di una comunità o di un parlante. L’ampiezza del r. è molto variabile, essendo diversa fra parlante e parlante nella stessa comunità, e fra comunità diverse nello stesso territorio nazionale.

 

RETORICA. Disciplina tradizionale, di ascendenza classica, che detta le norme del ben parlare, in un programma complessivo che si propone di sviluppare al massimo l’efficacia del discorso. In un’ottica moderna la r. appare come specificamente rivolta alla esplicitazione delle regole per la costituzione del testo (soprattutto letterario). Una competenza retorica dei parlanti è dimostrata dall’impiego quotidiano (e inconsapevole) di molte delle cosiddette figure della r. classica: es. i un asino (metafora); prendo la macchina (antonomasia); Mosca ha fatto sapere le sue condizioni (sineddoche) ecc.

 

RICOSTRUZIONE. Procedura applicata nella linguistica diacronica, che consiste nel risalire attraverso la comparazione di forme di lingue imparentate ad una forma precedente non attestata. Le forme ricostruite rappresentano ciò che vi è di comune fra le forme attestate messe a confronto. Un esempio classico di r. è il numerale “cento” nelle lingue indeuropee: dal confronto di latino centum, greco hekatón, sanscrito šatám, tedesco hundert ecc. si risale ad una forma ricostruita *kmtom, che non va considerata come una parola effettivamente esistita, quanto piuttosto un diagramma del metalinguaggio per esprimere la regolarità di certe corrispondenze.

 

RIDONDANTE. Tratto fonico non pertinente: ad esempio in italiano è r. l’articolazione sonora delle nasali, in quanto tutte le nasali sono sonore.

 

RIFLESSIVO. v. diatesi.

 

SABIR. Lingua di comunicazione occasionale fra parlanti di madrelingua diversa la cui interazione è limitata a situazioni ristrette (pesca, commercio). Un tipo di s. si può riconoscere nella lingua franca che era diffusa lungo le coste africane e turche, con grammatica molto semplificata e lessico neolatino, soprattutto italiano. Rispetto ai pidgin, i s. si formano in seguito a mescolanza linguistica che coinvolge più di due lingue, e rappresentano in ogni caso la varietà di contatto più effimera.

 

SCELTA. v. selezione e combinazione.

 

SCRITTURA. Sistema di rappresentazione della lingua costituito da segni visivi, correlati in modo regolare coi segni linguistici. Nell’ideografia la correlazione è istituita con il significato (v. ideogramma); nella logografia con il segno linguistico nella sua interezza (v. logogramma); nella sillabografia l’unità rappresentata è la sillaba, che in alcuni casi corrisponde ad un’antica parola monosillabica (v. sillabogramma); nella s. alfabetica infine la correlazione è istituita fra grafemi e fonemi, anche se di solito questa corrispondenza regolare viene disturbata dall’evoluzione della lingua (v. ortografia).

 

SEGMENTALE. Tutto ciò che riguarda il piano delle relazioni sintagmatiche fra le unità linguistiche. L’unità s. minima è il fonema, mentre i tratti costitutivi del fonema non sono concepibili come s. in quanto non è possibile individuare una loro successione (sono compresenti). I fatti prosodici (v. prosodia) sono invece di solito definiti come “soprasegmentali, con un termine in un certo senso improprio, dedotto dalla rappresentazione grafica di alcuni di essi (accento). v. pure segmentazione.

 

SEGMENTAZIONE. “Ho comprato - rose rosse -per te.” “Ho comprato - pesce azzurro - per il gatto.” Metodo di analisi della linguistica descrittiva americana di impronta comportamentista per cui l’individuazione di tutte le unità linguistiche (fonemi, morfemi, sintagmi ecc.) deve essere fatta tenendo conto unicamente del carattere lineare e consecutivo degli enunciati linguistici, con totale esclusione della dimensione paradigmatica (v. catena, costituenti immediati, distribuzione).

 

SEGNO. “In segno di profonda stima”. L’unità della semiologia: propriamente “qualcosa che sta per un’altra”. Peirce ha individuato tre tipi di s.: 1) l’icona, è un s. primario che manifesta in sé le qualità caratteristiche di ciò che rappresenta (‘ritratto’, ‘fotografia’, ma anche ‘diagramma’, ad esempio il diagramma dei prezzi in un dato periodo); 2) l’indice, è un s. secondario, che evoca la cosa che rappresenta attraverso una condizione di vicinanza immediata con essa (il ‘fumo’ è indice di fuoco, il ‘gesto di indicare’ sta per la cosa indicata; 3) il simbolo è un s. terziario che si riferisce alla cosa che rappresenta in modo arbitrario e convenzionale, per cui ha sempre bisogno di essere interpretato (il ‘verde’ è simbolo di speranza, le ‘parole’ della lingua, o segni linguistici, sono simboli delle cose).

 

SEGNO LINGUISTICO. Il rapporto fra significante e significato, caratterizzato dalla sua natura arbitraria e convenzionale. Le parole sono s.l., ma lo sono anche i morfemi e, in senso lato, anche le unità superiori alla parola (sintagmi, frasi, testi). Il carattere arbitrario differenzia il s.l. da altri tipi di segni: i simboli, ad esempio, sono per lo più motivati (si pensi agli emblemi dei partiti politici, tutti facilmente interpretabili). Altro carattere peculiare del s.l. è la linearità del significante, che lo differenzia ad esempio dai segni visivi (si pensi ai segnali stradali nei quali forma, colore ed eventuali disegni sono percepiti simultaneamente e non in successione).

 

SELEZIONE E COMBINAZIONE. Principio generale del meccanismo della lingua che consiste nello scegliere un’unità invece di un’altra traendola da un paradigma, e nell’unirla ad altre unità in un sintagma particolare. “Hai le mani pulite (sporche, fredde, bagnate, asciutte...)?” Nell’esempio pulite, sporche ecc. appartengono allo stesso paradigma, dove possono trovarsi anche in rapporto di antonimia; una volta combinate con l’elemento mani tuttavia si comportano nello stesso modo accordandosi con questo in genere e numero (v. accordo). Il principio della s. e c. opera a tutti i livelli della struttura linguistica.

 

SEMA. Tratto semantico minimo identificato a livello paradigmatico (v. significato, campo semantico). Nel morfema -o della parola gatt-o sono riconoscibili i s. [maschile] e [singolare], che stanno fra loro in un rapporto paritario, in quanto nessuno dei due è contenuto o implicato dall’altro. Viceversa nel lessema gatt- sono riconoscibili i s. [animato] [felino] [x = tratto semantico proprio del lessema: proprio quel felino che identifichiamo con “gatto”]. I due s. [animato] e [felino] non stanno in un rapporto paritario, giacché [felino] implica [animato] mentre non è vero il contrario ([animato] può comparire anche nei lessemi uom-o, cavali-o ecc.).

 

SEMANTICA. Parte della linguistica che studia il significato, in relazione sia alla referenza, sia alla strutturazione delle unità significative nel lessico di una lingua (v. lessicologia, campo semantico).

 

SEMEMA. v. sema.

 

SEMIOLOGIA. Scienza generale dei segni prodotti o riconosciuti dall’uomo e in particolare dei sistemi di segni usati nella vita sociale. Fondatore della s. - da lui chiamata semiotica - è considerato il filosofo americano C.S. Peirce. Saussure ha sostenuto che la s. è la scienza più generale nella quale rientra la linguistica. Secondo il filosofo americano C. Morris la s. si divide in tre discipline: 1) sintattica che studia i rapporti fra i segni; 2) semantica che studia i rapporti fra i segni e le cose designate; 3) pragmatica che studia i rapporti fra i segni e i loro utenti. Ad esempio: le diverse divise militari si differenziano per colore o per foggia (dimensione sintattica), ciascuna rappresentando una particolare arma o un particolare grado (dimensione semantica); esse inoltre possono essere riconosciute in diverse situazioni in rapporto a diversi valori comunicativi: situazioni belliche, sfilate militari, posti di blocco, servizi di scorta (dimensione pragmatica). Alcuni sviluppi della s. soprattutto in Francia (Barthes, Greimas, Levy Strauss) hanno portato a considerare certe forme sociali - sistemi di parentela, miti, moda - come linguaggi, estendendo il metodo della linguistica, con un rovesciamento di quanto suggerito da Saussure.

 

SEMIOTICA. v. semiologia.

 

SEMIVOCALE. Si dice dell’elemento vocalico del dittongo che è pronunziato con minore energia e sonorità (es. [i] ed [u] in ieri, uovo). Ogni vocale può trovarsi in posizione semivocalica, ma in pratica questo ruolo è svolto di solito dalle vocali più chiuse, [i] ed [u], che in alcune tradizioni ortografiche sono rappresentate in questo caso da particolari grafemi (j, w, y).

 

SENSO. “In che senso lo dici?” Termine di solito usato per indicare i valori di connotazione del significato. In una situazione comunicativa, ciascuna parola può assumere s. molteplici in rapporto al parlante e all’ascoltatore (ad esempio ragazzo, detto di una persona adulta, potrà avere il s. di “immaturo”, di “ingenuo”, di “giovanile” ecc.). Coseriu riconosce nel testo il luogo di completa manifestazione del s. In questa prospettiva si può parlare oltre che di s. di una parola o di un’espressione in un testo, anche di s. di un intero testo (il s. dei Promessi Sposi). La non coincidenza di s. e designazione è un espediente stilistico tipico delle barzellette.

 

SIBILANTE. v. dentale, fricativa.

 

SIGNIFICANTE. Nella terminologia di F. de Saussure si designa con s. l’ “immagine acustica” in quanto concepita in rapporto al significato o concetto espresso. Per Saussure il s. è di natura psichica in quanto l’associazione fra s. e significato si colloca nel cervello del parlante. Il s. è realizzato mediante la successione lineare dei suoni (linearità del s.) che è segmentabile in unità dotate di senso dette segni linguistici. La linearità del s. è una peculiarità della lingua rispetto ad altri sistemi semiologici. Il rapporto fra s. e significato è arbitrario (v. arbitrarietà). Il s. coincide con il piano dell’espressione (v. espressione e contenuto, glossematica).

 

SIGNIFICATO. In rapporto al significante il termine indica l’aspetto concettuale del segno linguistico. In prospettiva semiologica il s. è il rapporto fra il segno linguistico e la realtà designata (ad esempio i sostantivi identificano oggetti, gli aggettivi concorrono alla loro descrizione e i verbi “dicono” qualcosa degli oggetti ecc.). Tale rapporto si definisce referenza ed alcuni linguisti parlano in tal senso di s. referenziale distinguendolo dal s. linguistico. Il s. referenziale può essere specializzato o ristretto; nel primo caso una parola come palla designerà “l’oggetto sferico di cuoio impiegato nel gioco del calcio” (es. palla al centro), nel secondo caso la stessa parola designerà ogni oggetto sferico o assunto come tale (palla di neve, palla di cannone, la palla al piede). Il s. linguistico può essere identificato in modo paradigmatico, in particolare mediante l’analisi in tratti semantici (sema, campo semantico), oppure in modo sintagmatico, in riferimento al suo uso in contesti linguistici specifici. In ogni s. possono essere riconosciuti valori di denotazione coincidenti con quelli normali ed istituzionali (il cosiddetto s. di base che si trova nei vocabolari) e valori di connotazione, emotivi, situazionali, aggiunti, strettamente dipendenti dagli usi di una parola o di un’espressione. Ad esempio: passami il pane (denotazione) e dacci oggi il nostro pane quotidiano (connotazione). Nella terminologia di Coseriu il s. è distinto dalla designazione e dal senso, ed indica il valore linguistico del contenuto concettuale. In italiano, ad esempio, giovanotto può essere usato per indicare un vecchio di novant’anni (= designazione) in modo scherzoso (= senso), ma il suo s. emerge unicamente dai confronti con giovane, giovanetto, giovincello, giovinastro ecc.

 

SILLABA. Unità linguistica facilmente riconoscibile sul piano intuitivo e universale nella produzione del linguaggio. Secondo la descrizione tradizionale è costituita da una vocale e da alcune consonanti che con essa si accorpano. In realtà il nucleo sillabico può essere costituito anche da fonemi non vocalici (le cosiddette sonanti) come nell’inglese button pronunziato [batn], o nel nome serbocroato di Trieste Trst in cui la [r] svolge funzione “vocalica” e porta l’accento stesso della parola. In alcune lingue esistono restrizioni sulla tipologia della sillaba, nel senso che vi sono previste solo s. aperte, cioè terminanti per vocale (il contrario è la s. chiusa).

 

SILLABOGRAMMA. Grafema che rappresenta una sillaba in scritture antiche (cuneiforme, scrittura lineare cretese ecc.). In tali scritture le sillabe rappresentate corrispondono spesso ad antiche parole (v. logogramma), specialmente nel caso del cuneiforme che nasce in ambiente sumerico in cui la lingua comprendeva elementi lessicali di solito monosillabici (es. an, kur, corrispondenti alle parole sumeriche col valore di “stella” e “monte”).

 

SIMBOLO. v. segno.

 

SINCOPE. Caduta di una fonema (soprattutto vocalico) all’interno di una parola, per lo più come conseguenza di un forte accento dinamico. Es. latino oculum > oclum (= italiano occhio).

 

SINCRONIA. 1) Stato di una lingua in un particolare momento della sua storia; 2) i rapporti fra le unità di un sistema linguistico. Secondo Saussure è possibile riconoscere il carattere sistematico della lingua solo se la si considera in s., cioè senza l’intervento del fattore tempo. In realtà la s. perfetta è un’astrazione. In ogni stato di lingua sono presenti tracce del passato (arcaismi, eccezioni) ed anticipazioni di stati futuri (neologismi, errori). v. diacronia.

 

SINGOLATIVO. Tipo di quantificatore usato per designare l’unità singola rispetto a un referente concepito come naturalmente plurale. Es. fiocco di neve, filo d’erba, granello di sabbia, chicco di...

 

SINONIMIA. Assoluta identità del significato in due o più segni linguistici diversi. La s. è, nonostante le apparenze, fenomeno piuttosto raro, in quanto, in senso stretto, prevede la sostituibilità dei segni linguistici sinonimici in tutti i contesti. Perciò comprare e acquistare possono essere definiti soltanto “quasi sinonimi” perché non sono sostituibili nel contesto [ ] un amico (comprare un amico e acquistare un amico hanno significati diversi). Un esempio di s. perfetta si riconosce nelle preposizioni italiane fra e tra.

 

SINTAGMA. Ogni successione lineare di unità linguistiche tale da formare un’unità più ampia (gratta + cielo = grattacielo; mal + di + testa = mal di testa). In senso generale si riconosce un s. in ogni catena di forme linguistiche, ciascuna delle quali può essere sostituita da un’altra forma dello stesso paradigma. (v. selezione e combinazione). In sintassi è la più piccola unità dotata di senso (es. il vaso, i miei genitori, con molto piacere, io parto, quando sarai partito), ed è definito dalla relazione esistente fra le unità in combinazione. Alcuni s. sono indipendenti e corrispondono di fatto a frasi; altri invece esprimono il loro senso unicamente in costruzione con altri s. (io parto - con il treno). Questa tipologia ricalca quella delle forme libere e delle forme legate (v. parola). S. nominale (SN): nella grammatica generativa uno dei due costituenti profondi di ogni frase (F); l’altro è il s. verbale (SV):
Il simbolo SN rappresenta qualunque sequenza capace di funzionare come soggetto, oggetto o complemento (es. entrambi gli altri due giovani studenti stranieri che hai visto ieri). Il SV rappresenta il predicato della frase, comunque esso sia espresso (es. sono partiti improvvisamente con l’aereo verso il loro paese).

 

SINTASSI. Studio delle relazioni fra le unità che costituiscono una frase o un insieme di frasi in costruzione (v. periodo). Tale studio rende ragione della costituzione del senso della frase, che non corrisponde mai alla somma dei significati delle singole unità presenti. Ad esempio dati i significati “io”. “comprare” “passato prossimo”, “cravatta”, “articolo indeterminativo”, “Maria” “cugino”, “articolo determinativo” “preposizioni di, a” è possibile costruire diverse frasi concrete: ho comprato una cravatta al cugino di Maria; Maria ha comprato una cravatta a mio cugino, Maria e il cugino mi hanno comprato una cravatta; ho comprato la cravatta a un cugino di Maria ecc. In una prospettiva strutturale la s. individua in queste frasi una gerarchia di connessioni fra termini reggenti e termini retti (Tesnière), oppure i limiti funzionali del nucleo e delle espansioni (Martinet). Nella linguistica descrittiva americana l’analisi sintattica individua i costituenti immediati, e li classifica in base alle loro posizioni ricorrenti. La grammatica generativa individua invece le regole secondo cui le frasi sono state prodotte dal componente sintattico, prima che ad esso sia attribuita un’interpretazione semantica e fonologica. (v. funzioni sintattiche).

 

SISTEMA. L’organizzazione complessiva inerente ad ogni lingua (s. di segni; s. di sistemi). Rispetto alla norma il s. rappresenta la rete di relazioni astratte che le singole lingue storiche attualizzano solo in parte, ed in modo peculiare.

 

SITUAZIONE. Tutte le condizioni extralinguistiche (interlocutori, tempo, luogo ecc.) in cui una frase o un testo realizzano la loro capacità significativa. Ad esempio l’enunciato prego ha tre diverse funzioni significative in rapporto a tre possibili s.: 1) è un “invito” (a passare per primo) se detto a qualcuno davanti ad una porta; 2) è una “risposta” ad un ringraziamento; 3) è una “richiesta” gentile se si vuole conseguire un certo scopo. Le s. comunicative sono studiate dalla pragmatica, e dalla sociolinguistica in rapporto alle varietà linguistiche funzionali contestuali.

 

SOCIOLINGUISTICA. La branca di studio che si occupa delle implicazioni sociali del linguaggio, con particolare riguardo ai fenomeni di varietà che riflettono le diverse forme di interazione fra i parlanti. La s. prende in considerazione la competenza del parlante, non più considerato come un individuo ideale appartenente ad una comunità omogenea, ma come soggetto storico. dotato di un proprio idioletto e di un repertorio che può variare anche molto nell’ambito della comunità a cui appartiene. La s., che in alcuni casi cerca di trarre dallo studio della lingua conclusioni sulla struttura della società, si serve dell’apporto di discipline sia linguistiche (pragmatica, psicolinguistica) sia non linguistiche (sociologia, etnologia, psicologia sociale).

 

SOGGETTO. v.. funzioni sintattiche.

 

SONANTE. Una consonante che ricopre il ruolo di nucleo sillabico (nasale s., vibrante s., laterale s.). Il ruolo di s. avvicina le consonanti alle vocali, come dimostra il fatto che in questa funzione esse possono portare l’accento.

 

SONORO. Modo di articolazione tipico dei fonemi vocalici e caratterizzante i fonemi consonantici nella cui realizzazione interviene la vibrazione delle corde vocali. Occlusive sonore in italiano sono /b/, /d/, /g/.

 

SORDO. Modo di articolazione caratterizzante i fonemi consonantici nella cui produzione non intervengono vibrazioni delle corte vocali. (v. sonoro).

 

SOSTANTIVO. “Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame” (Genesi 2, 20). Dicendo cane, libro, libertà, allegria si istituisce un collegamento detto referenza fra elementi linguistici e realtà extralinguistica. Proprio la referenza permette di individuare il s. fra le altre entità linguistiche. Da un punto di vista semantico il s. è quella parte del discorso che ha il potere di identificare oggetti concreti o astratti dando loro un nome. Come categoria grammaticale il s. deve essere descritto in ogni singola lingua. In italiano ad esempio, esso esprime sempre determinazioni di numero (singolare o plurale) e di genere (maschile o femminile), mentre non manifesta la funzione sintattica, che invece è obbligatoriamente espressa nei s. latini (v. caso). Il s. possiede alcune categorie grammaticali in comune con l’aggettivo, da cui si distingue per la modalità di referenza.

 

SOSTRATO. v. contatto linguistico.

 

SOTTOCODICE. In sociolinguistica si intende con questo termine una varietà della lingua standard caratterizzata non tanto da una propria grammatica e da un proprio lessico quanto piuttosto da una serie di elementi (soprattutto lessicali) presi dalla lingua standard ed usati con significati particolari. Esempi di s. sono le varie lingue scientifiche (della medicina ecc.), le lingue degli sport, quelle dell’amministrazione, dell’industria, dei mestieri ecc.

 

STRUTTURA. Il sistema linguistico considerato come una serie di livelli sovrapposti integrati gli uni negli altri. Il riconoscimento della s. e la sua descrizione è alla base della linguistica moderna di impostazione strutturalista. v. valore, forma~sostanza.

 

STRUTTURA PROFONDA. In una grammatica generativa rappresenta le relazioni grammaticali fra gli elementi di un sintagma o di una frase che non sono immediatamente evidenti dall’analisi della successione lineare degli elementi. Come si può osservare i due diversi indicatori sintagmatici rendono ragione della distanza semantica delle due frasi, nascoste dall’identica struttura superficiale.

 

STRUTTURA SUPERFICIALE. Termine della grammatica generativa: i rapporti sintattici presenti in una frase effettivamente realizzata (v. esecuzione). S. s. identiche possono corrispondere a strutture profonde diverse.

 

SUBORDINAZIONE. Tipo di espansione in cui l’elemento aggiunto ha una funzione diversa da quella degli altri elementi già presenti nell’enunciato. Es. sono uscito con la borsa / a fare la spesa; la casa di Mario.

 

SUFFISSO. Nelle lingue flessive è un affisso pre-desinenziale la cui funzione è quella di determinare il significato espresso dalla radice, con la quale costituisce il tema (es. -issim- in carissimo, -av- in amavo). I s. si definiscono produttivi quando permettono di derivare un numero sufficientemente alto di parole (v. produttività, derivazione). Un esempio è il s. -ism- che caratterizza la classe dei sostantivi astratti che designano in senso ampio dimensioni psicologiche e intellettuali (Romanticismo, consumismo, socialismo, qualunquismo ecc.). Il carattere referenziale del s. emerge in modo evidente dai casi in cui la sua funzione appare svolta da elementi originariamente autonomi, cioè da antiche parole. Un esempio è decenne, in cui -enn- costituisce l’evoluzione della parola anno (= di dieci anni), Questa caratteristica differenzia nettamente il s. dalla desinenza, che ha sempre innanzitutto un valore sintattico-relazionale.

 

SUPERSTRATO. v. contatto linguistico.

 

TECNICHE DI ESPRESSIONE. v. isolante, agglutinante, flessivo.

 

TEMA. Nella linguistica storico-descrittiva si indica con t. l’unione della radice e di uno o più suffissi, cioè la porzione pre-desinenziale della parola. Ad esempio: amav-o = t. dell’imperfetto (am+av); carissim-o = t. del superlativo (car+issim). Coi t. si esprimono significati più complessi rispetto a quelli manifestati dalla radice, grazie alla capacità dei suffissi di determinare il significato di base.

 

TEMA~REMA. “Di notte / tutti i gatti sono grigi”. Doppia componente semantico-sintattica reperibile sempre in qualsiasi enunciato: il tema è ciò di cui si parla, l’argomento del discorso, il rema il giudizio che si dà sul tema. In questo senso nell’opposizione t. ~ r. (o con terminologia inglese topic comment), si è voluta riconoscere quella fra dato ~ nuovo, nel senso che si deve assumere come già noto ciò di cui si parla (= già dato), mentre quello che si dice rappresenterebbe l’informazione nuova che si vuole trasmettere. Da un punto di vista sintattico il t. coincide per lo più con il soggetto grammaticale della frase, ed il r. con il predicato: questa struttura rappresenta tuttavia solo la forma “normale”, cioè non marcata della predicazione. In frasi come: a Palermo / sono andato una volta sola, oppure di notte / la temperatura si abbassa si può riconoscere l’elemento tematico in forme sintatticamente non coincidenti col soggetto. Normalmente il t. occupa la parte iniziale di un enunciato, nella quale tendono ad essere spostati degli elementi che si vogliono mettere in evidenza (effetto di topicalizzazione: es. è un’ora / che ti aspetto).

 

TEMPO. L’italiano con l’unica parola tempo designa sia la dimensione fisica del “tempo” variamente misurabile (il tempo di crescita di un albero; il primo tempo di una partita ecc. = T1), sia la categoria linguistica espressa nel verbo (il tempo imperfetto = T2); per non parlare del tempo atmosferico, che è tutt’altra cosa. In altre lingue la profonda diversità di queste nozioni si manifesta nell’uso di termini diversi: in inglese T1 = time, T2= tense (tempo atmosferico = weather); in tedesco T1 = Zeit, T2= Tempus (tempo atmosferico = Wetter). Il t. linguistico è una relazione rispetto ad un asse, rappresentato da ciò che viene considerato come attuale, o presente. Le relazioni espresse dai t. tuttavia, sono diverse a seconda che il presente assiale sia collocato sul piano del discorso o su quello della narrazione. 1) Nel discorso il t. presente indica il momento contemporaneo all’atto dell’enunciazione e gli altri t. esprimono l’anteriorità o la posteriorità rispetto a quest’asse di riferimento (t. del passato e del futuro). In italiano, tuttavia, una condizione particolare è rappresentata dall’imperfetto, col quale nel discorso si può indicare non solo qualcosa di “passato”, ma anche qualcosa di “non attuale”, di “intenzionale”, di “potenziale ecc. (ad esempio: volevo dirle = formula di cortesia; ancora un passo e cadevo = possibilità; facciamo che io ero la mamma e tu eri la bambina = programmazione di un gioco). 2) Nella narrazione (normalmente espressa al passato), l’asse di riferimento è costituito dal t. della frase reggente. Avremo quindi il passato del passato (trapassato remoto, trapassato prossimo: quando ebbe chiuso la porta si accorse...), o lo sfondo contemporaneo al passato (imperfetto: mentre mangiava vide...) o infine il futuro del passato (condizionale: pensò che avrebbe mangiato). Il presente rispetto al passato ed al futuro appare come la categoria non marcata (v. marca), in quanto può sostituirli neutralizzando l’opposizione. Ad esempio: ieri esco alle sette e vedo Mario che rincasava; oppure domani alle sette esco e vado a vedere se Mario è rincasato. La distinzione morfologica fra le varie possibilità del t. linguistico si realizza, nelle lingue flessive, non solo con le desinenze o i suffissi, ma anche con la variazione della radice (es. ved-o - vid-i, facc(i)-o - fec-i: v. apofonia). La situazione descritta non è tuttavia universale, come non lo è la categoria del t.

 

TESTO. “M’illumino / d’immenso” (Ungaretti). Una successione di enunciati, che si realizza come discorso (scritto o orale) dotata di coerenza. La coesione del t. è realizzata e riconosciuta automaticamente grazie alla competenza testuale, che ogni utente della lingua esercita in relazione ai diversi contesti. Altri tratti costitutivi del t. sono la coreferenza e l’anafora. Dal punto di vista della semiologia il t. è un segno linguistico complesso non suscettibile di essere integrato in unità linguistiche superiori che ne specifichino la funzione comunicativa. In questo senso il t. è l’unità massima, il cui contenuto semantico (= senso) non coincide necessariamente con la somma dei sensi parziali degli enunciati che lo costituiscono (si pensi alle barzellette “a doppio senso”). Da un punto di vista quantitativo non esistono limiti né inferiori né superiori per l’estensione di un t. (può corrispondere a una sola parola o a un’opera in vari volumi). Se il t. non può essere integrato in un’unità linguistica superiore, esso in ogni caso deve essere inserito in una situazione comunicativa, nella quale entrano come elementi determinanti per la sua produzione e comprensione le presupposizioni, la competenza comunicativa, le intenzioni, e le situazioni concomitanti che coinvolgono gli interlocutori.

 

TIPOLOGIA. Branca di studio che si occupa di individuare i tratti linguistici utili per una classificazione tipologica delle lingue. La t. opera di solito con descrizioni sincroniche, ma non è esente da interessi e - in alcuni casi - presupposti diacronici, come quello che considera le lingue flessive come il punto di arrivo di una successione di uno stadio isolante e di uno agglutinante (v. anche ordine basico).

 

TONO. Fenomeno acustico consistente in una variazione dell’altezza musicale della voce. Contrasti di t. fra sillabe rappresentano il cosiddetto accento musicale, che era proprio di alcune lingue indeuropee antiche come il greco. In questo senso il t. è un tratto soprasegmentale (v. prosodia), il che non impedisce che in certe lingue i t. svolgano una funzione distintiva opponendo fra loro elementi lessicali fonologicamente identici, ma distinti dalla diversa intonazione di una delle sillabe (una lingua di questo tipo è il cinese).

 

TOPIC~.COMMENT. v.. tema ~ rema.

 

TOPONIMO. Nome proprio di luogo (v. anche onomastica).

 

TRANSITIVO. Particolare dimensione semantica del lessema verbale (v. verbo) manifestata dalla sua costruzione.

 

TRASCRIZIONE. Tecnica di conversione di un enunciato parlato o scritto secondo ortografie storiche in un sistema grafico coerente, che manifesti in modo chiaro le opposizioni fonologiche o le differenze fonetiche (t. fonematica o t. fonetica, v. alfabeto fonetico internazionale).

 

TRASFORMAZIONE. v. regole di trasformazione.

 

TRATTO. Elemento differenziale, soprattutto del livello fonologico (t. distintivi). v. pertinenza.

 

TRONCAMENTO. Fenomeno fonetico di giuntura consistente nell’eliminazione della sillaba finale o di parte di essa, con creazione di allomorfi (bel accanto a bello, quel rispetto a quello). In alcuni casi l’allomorfo troncato si rende autonomo e compare anche fuori di giuntura (es. un po’).

 

UNITÀ. “Erano i bei capelli allaura sparsi” (Petrarca). È l’elemento identificato in base alla segmentazione della catena linguistica, in rapporto ai diversi livelli considerati (u. fonologica, morfologica, lessicale ecc.). Secondo Saussure l’identificazione dell’u. è realizzata mediante la verifica di una corrispondenza fra significante e significato (all’[aura] / a [Laura].) Secondo Benveniste le u. dei vari livelli sono identificate mediante il riconoscimento della loro funzionalità al livello superiore.

 

UNITÀ DISTINTIVA. v. pertinenza.

 

UNIVERSALI LINGUISTICI. Tutte le lingue in quanto tali condividono i tratti impliciti nella definizione di lingua (es. arbitrarietà, doppia articolazione, diacronia e sincronia, creatività, sistematicità ecc.). Sono questi i cosiddetti u. essenziali, cui vanno aggiunti i tratti impliciti nella funzione comunicativa dell’atto linguistico (anafora, deissi) o nella sua funzione rappresentativa (rappresentazione, tema-rema). Più interessanti sono le caratteristiche non previste nella definizione, ma tuttavia riscontrabili in tutte le lingue (= u. empirici). Ad es. “tutte le lingue conosciute hanno vocali e consonanti, anche se una lingua senza vocali funzionali è teoricamente possibile (immaginiamo una lingua che “appoggi” ogni suono consonantico ad un suono vocalico di timbro indistinto). Gli u. empirici sono per lo più statistici, cioè riguardano solo tendenzialmente tutte le lingue. Uno di questi concerne l’ordine basico: “nelle frasi dichiarative il soggetto tendenzialmente precede l’oggetto”.

 

USO. L’attuazione della lingua da parte dell’individuo nel concreto atto linguistico. Ricopre in parte il valore di parole. Rispetto alla norma 1’u. può deviare con una certa libertà, diversa però a seconda dei livelli (minima al livello fonologico, massima al livello semantico). v. idioletto.

 

VALENZA. Regola relativa alle costruzioni sintattiche richieste da verbi ed aggettivi, ciascuno dei quali può avere una o più v., con corrispondenti specializzazioni semantiche: es. parlare italiano e parlare di italiano, oppure parlare con qualcuno (aspetto durativo) e parlare a qualcuno (aspetto ingressivo), ridere di qualcosa e ridere per qualcosa...

 

VALORE. La lingua è un sistema di valori puri.” Concetto centrale nella teoria lin­guistica di F. de Saussure. Egli intende mostrare: 1) che il segno linguistico non è naturale, ma esiste solo per il v. conven­zionale che gli viene attribuito; 2) che i se­gni linguistici hanno il loro v. in quanto si differenziano e si oppongono fra loro nel sistema. Sulla nozione di v. si fonda lo strutturalismo europeo (v. funzionalismo, glossematica).

 

VARIANTE. Le diverse forme che un’unità linguistica può assumere senza mutare il proprio valore. Ad esempio i diversi modi di pronunziare il fonema /n/ a seconda della consonante che lo segue costituiscono le v. combinatorie del fonema stesso: a[n]cora, a[n]golo, la[n]cia, a[n]gelo, mo[n]tare, mo[n]do, i[n]verno, i[n]verno manifestano 8 realizzazioni diverse di /n/ in rapporto al grado di sonorità e al luogo di articolazione. Sul piano morfologico si riconoscono v. morfemiche o allomorfi in casi come amic-o amic-i, in cui la diversa pronuncia della consonante finale della radice è determinata dalla vocale desinenziale. Si individuano v. del contenuto nelle diverse accezioni semantiche che una parola può assumere in diversi contesti di frase (v. identità). Una classe di v. costituisce un’invariante.

 

VARIETÀ LINGUISTICA. Il variare della manifestazione linguistica in rapporto a diversi fattori: 1) luogo: v. diatopica rappresentata dai dialetti o dalle v. regionali di una lingua standard; 2) situazione sociale dei parlanti: v. diastratica rappresentata dai gerghi, dai linguaggi settoriali ecc.; 3) situazione contestuale del discorso: v. diafasica, rappresentata dai diversi registri o stili, più o meno formalizzati.

 

VELARE. Luogo di articolazione caratterizzante certi fonemi consonantici (/k/, /g/) nella cui realizzazione il diaframma si colloca fra il dorso della lingua ed il velo pendulo.

 

VERBO. Classe di lessemi cui è deputata per eccellenza la funzione predicativa nell’enunciato. Questa dimensione logica, riTenuta universale, è rappresentata, nella grammatica generativa dalla riscrittura preliminare e ricorsiva di ogni nodo F (frase) in SN (sintagma nominale) e SV (sintagma verbale). La tradizionale distinzione fra v. di stato e v. di azione qualifica il contenuto della predicazione verbale, ma non ha necessariamente una corrispondenza sul piano linguistico (morfologico o sintattico). Nelle lingue flessive il v. è distinto dal nome in base alle categorie grammaticali che può esprimere mediante la coniugazione (v. persona, tempo, modo, aspetto, diatesi). Nelle lingue indeuropee tutte le categorie verbali si riferiscono alla posizione del soggetto nei riguardi dell’azione o dello stato espresso dal lessema verbale. Le categorie morfologiche del v. sono normalmente espresse attraverso suffissi e desinenze, ma in alcuni casi si può ricorrere ai cosiddetti v. ausiliari e modali (es. io ero venuto, potrei venire). Il carattere transitivo o intransitivo riguarda la dimensione semantica del lessema verbale, ed i rapporti sintattici che ne derivano. I v. transitivi “puri” sono quelli che impongono che venga espresso il loro complemento (= completamento) diretto (es. rompere); i v. intransitivi “puri” sono quelli che non sottostanno a questa condizione (arrivare, dormire). Molti v. però possono essere usati sia transitivamente sia intransitivamente (v. neutri: es. mangiare qualcosa e mangiare alle tre del pomeriggio). Un v. particolare è essere che ha funzione specificatamente relazionale quando il predicato è espresso da un sostantivo o da un aggettivo (il pino è un albero; il pino è alto). La funzione di copula non è tuttavia universale, e infatti molte lingue ricorrono a frasi nominali, prive cioè di v. (es. tutti belli in questa casa!).

 

VIBRANTE. Modo di articolazione caratterizzante certi fonemi consonantici nella cui realizzazione un articolatore mobile (es. la punta della lingua) entra in vibrazione (es. /r/).

 

VOCABOLARIO. v. lessico, lessicografia.

 

VOCALE. Modo di articolazione caratterizzato da sonorità (v. sonoro) e da diaframmi molto aperti, tipico di una classe di fonemi detti appunto vocali. La qualità del suono vocalico è determinata da vari fattori, ma soprattutto dalla posizione della lingua e delle labbra nell’articolazione e dall’apertura relativa della bocca. In relazione a questi tre parametri si parla di v. palatali (/i/ /e/) e di v. velari (/o/ /u/) a seconda che il diaframma sia realizzato dalla lingua nella parte anteriore o posteriore della bocca; si parlerà di v. labiali (/o/ /u/) nel caso che nell’articolazione intervenga una spinta in avanti o comunque sia, un arrotondamento delle labbra; infine saranno aperte le v. che presentano un angolo intermascellare maggiore di altre dette chiuse (/a/ è la v. di massima apertura, /i/ ed /u/ sono le v. più chiuse).

 

Nel triangolo vocalico il vertice è rappresentato dalla v. di massima apertura e di minima elevazione linguale, la base dalle v. di massima chiusura, mentre sui due lati sono ordinati i gradi di apertura intermedi delle serie palatale e velare.

 

VOCALISMO. Il sistema vocalico di una lingua.

 

ZERO. Elemento funzionale dotato di significato lessicale o grammaticale, non manifestato dalla presenza di un significante, ma proprio dall’assenza di questo. La parola atto si distingue da batto, patto ecc. mediante l’assenza di un fonema prima di /a/ (fonema z.). I nomi maschili spesso si oppongono ai nomi femminili mediante un morfema derivativo z.: student-(e)~student-ess-(a).