Curcio Medie

Saggio di Alessandro Amorosi 

Introduzione
Da numerosi anni è in corso un acceso dibattito sulla possibile influenza dell’uomo nel produrre modificazioni del clima attraverso l’utilizzo di combustibili fossili e l’immissione nell’atmosfera di gas di origine antropica (tra cui i noti clorofluorocarburi o CFC), processi ritenuti responsabili rispettivamente dell’accumulo di gas serra e dell’assottigliamento dello strato di ozono presente nella stratosfera.
Nonostante un generale consenso del mondo scientifico circa l’ipotesi di un’influenza antropica sul clima, si è ancora molto distanti da una stima attendibile degli effetti di questo fenomeno. Questo è un aspetto cruciale della discussione: una previsione realistica dei possibili scenari futuri di evoluzione ambientale del pianeta Terra richiede, infatti, una valutazione puntuale del contributo antropico alle variazioni climatiche. Per separare il contributo antropico dal segnale climatico globale è indispensabile una approfondita conoscenza dei meccanismi naturali che regolano il clima e delle modalità attraverso le quali i mutamenti climatici influiscono sull’ambiente.

Il dato più allarmante relativo alla massiccia immissione nell’atmosfera di gas a «effetto serra» è quello di un generale riscaldamento del pianeta (fenomeno noto come global warming). L’incremento medio della temperatura dell’aria nella bassa troposfera è stato di 0,74 °C negli ultimi 100 anni, ma nel corso degli ultimi decenni il fenomeno ha registrato una preoccupante accelerazione.
A causa dell’assorbimento del calore e dell’assunzione di anidride carbonica di origine antropica dall’atmosfera, i 700 metri superficiali delle masse d’acqua oceaniche hanno segnato un aumento di 0,1 °C negli ultimi 40 anni e gli oceani, nel complesso, stanno fronteggiando un problema di acidificazione, ossia di diminuzione del pH delle acque. Il riscaldamento globale delle masse oceaniche sta inoltre determinando significativi cambiamenti nella distribuzione e nell’abbondanza del fitoplancton e dello zooplancton.

Alcuni modelli di previsione indicano scenari di evoluzione ambientale futura molto preoccupanti, a partire da un generalizzato scioglimento dei ghiacci delle calotte polari. Sconvolgimenti climatici, intensificazione di eventi catastrofici, desertificazione e innalzamento del livello del mare, con conseguente crisi di quel settore della civiltà umana che oggi vive a contatto diretto con l’acqua, sono solo alcuni degli effetti ipotizzati.

Gli effetti del riscaldamento globale sono anche sotto gli occhi del geologo: gli ultimi trent’anni hanno segnato una progressiva riduzione del volume dei ghiacciai, fenomeno che nell’area alpina è stato ancor più evidente che in molte altre aree del pianeta. La terribile estate del 2003, la più calda degli ultimi due secoli, ha fortemente contribuito a questa contrazione, portando alla luce vaste aree detritiche prive di vegetazione, precedentemente coperte dai ghiacci.

Il problema è serio e non deve essere sottovalutato. Un approccio scientifico al tema dei mutamenti climatici non può tuttavia limitarsi semplicemente all’analisi e alla trattazione statistica di dati meteorologici e climatici rilevati su di un arco temporale così breve. Oltre ai problemi legati alla disomogeneità degli strumenti di misurazione e alle differenti tecniche di rilevamento dei dati climatici nel corso del tempo e delle diverse stazioni prese come riferimento, è necessario tenere conto del fatto che i meccanismi naturali che regolano le variazioni del clima sono estremamente complessi e che si snodano su archi temporali che, come vedremo, sono di gran lunga più estesi di quelli riferibili all’epoca storica. Il fattore di scala, in tema di cambiamento climatico, è tutt’altro che trascurabile.

Per poter dunque affrontare su basi concrete e con il giusto rigore metodologico il dibattito scientifico in corso in questi anni sul tema dei mutamenti climatici è necessario associare allo studio dell’evoluzione del clima in epoca storica l’analisi dei fattori di controllo del clima a scala globale e di come il clima è naturalmente variato nel tempo. La geologia moderna, attraverso lo studio di dettaglio di carote prelevate nel sottosuolo dei continenti e degli oceani, si occupa di investigare l’evoluzione del clima in epoche più antiche e di ricostruire la risposta degli ambienti sedimentari (coste, delta, pianure) alle variazioni climatiche del passato. 

La ciclicità climatica
È allo scienziato serbo Milutin Milankovitch, un astronomo che visse nella prima metà del secolo scorso, che dobbiamo la scoperta che il nostro pianeta è soggetto a variazioni cicliche dell’insolazione, ossia dell’energia solare che raggiunge la Terra, e che questa variazione è controllata dalla complessa sovrapposizione di tre processi ciclici regolati da parametri astronomici orbitali. Sono questi i cosiddetti cicli orbitali, o «cicli di Milankovitch», che agiscono rispettivamente con periodo di 400.000 e 100.000 anni (cicli dell’eccentricità dell’orbita terrestre), 40.000 anni (cicli di obliquità dell’asse terrestre) e 21.000 anni (cicli di precessione degli equinozi).

Le fluttuazioni cicliche dell’insolazione sono in primo luogo legate alla forma dell’orbita terrestre attorno al Sole: questa, nel corso di un ciclo di eccentricità, varia da quasi circolare a ellittica. Nel momento in cui l’orbita ha la massima eccentricità, la quantità di radiazione solare che raggiunge la Terra al perielio (il punto dell’orbita più vicino al Sole) è di circa un quarto superiore rispetto all’afelio (il punto dell’orbita più lontano dal Sole).
Questa differenza diminuisce progressivamente mano a mano che l’orbita approssima una traiettoria circolare. Anche la variazione di inclinazione dell’asse terrestre (da 22,1° a 24,5°) rispetto alla perpendicolare al piano dell’orbita, che avviene con un periodo di circa 40.000 anni, determina variazioni nel ciclo stagionale di insolazione in funzione della maggiore o minore obliquità dell’asse.

Oggi si ritiene che l’effetto combinato di questi processi sia responsabile di larga parte delle fluttuazioni climatiche che hanno interessato il nostro pianeta nel corso del Quaternario (gli ultimi 1,8 milioni di anni), un periodo che dal punto di vista climatico rappresenta una fase relativamente fredda nella storia della Terra.
La teoria milankoviana, che suggeriva un numero di espansioni delle calotte polari di gran lunga superiore alle cinque «glaciazioni» tradizionalmente riconosciute nell’area alpina (Donau, Gunz, Mindel, Riss e Würm), non venne presa inizialmente troppo sul serio; essa si affermò, però, nel corso degli anni ’70 del secolo scorso, non appena nuovi dati geologici ne confermarono la validità.

Uno dei primi studiosi a rintracciare la registrazione della variabilità climatica all’interno di sedimenti di età quaternaria fu il paleontologo italiano Cesare Emiliani, formatosi come naturalista all’Università di Bologna, ma ben presto emigrato negli Stati Uniti, all’Università di Chicago, a svolgere la sua attività di ricercatore sotto la direzione di un eminente scienziato, il Prof. Harold Urey, già premio Nobel per la Chimica nel 1934. Emiliani, analizzando la composizione isotopica del guscio carbonatico del plancton marino fossilizzato in strati di diversa età sul fondo del mar dei Caraibi, si accorse di variazioni cicliche nel rapporto degli isotopi dell’ossigeno 16O e 18O, interpretate come il risultato di variazioni cicliche nella temperatura delle acque dei mari pleistocenici.

Gli studi furono presto estesi a tutti gli oceani e a successioni più antiche dei 400.000 anni presi in considerazione da Emiliani, confermando puntualmente i dati del ricercatore italo-americano e portando alla realizzazione di una curva globale di evoluzione della temperatura valida per tutto il Quaternario. I risultati di queste ricerche fecero tramontare definitivamente l’idea che il Quaternario sia stato interessato unicamente dalle cinque glaciazioni identificate sulle Alpi. È oggi noto che i cicli caldo-freddo succedutisi nel corso del Quaternario sono stati almeno una trentina.

L’ottima corrispondenza tra la curva teorica dell’insolazione e la curva delle paleotemperature dei mari ricostruita sulla base dei dati di carota, fa sì che esista oggi una generale convergenza degli scienziati nel ritenere che i cicli milankoviani dell’eccentricità, con periodo di circa 100.000 anni, abbiano svolto un ruolo fondamentale nell’alternanza di periodi glaciali e interglaciali registrata sulla Terra negli ultimi 800.000 anni e che le successive fasi di formazione e scioglimento delle calotte polari abbiano determinato cicli di abbassamento e successivo sollevamento dei mari e degli oceani dell’ordine di oltre 100 metri, secondo lo schema: massima espansione dei ghiacci = minimo livello del mare, e viceversa.

La «curva degli isotopi dell’ossigeno», che definisce la variazione relativa della temperatura sulla base della misurazione del rapporto tra gli isotopi 16O e 18O, è lo strumento che ci consente oggi di definire con precisione la cronologia delle diverse fasi glaciali e interglaciali succedutesi nel corso del Quaternario. Con numeri pari vengono indicati per convenzione gli stadi isotopici corrispondenti a periodi glaciali, mentre le fasi interglaciali sono contraddistinte da stadi isotopici caratterizzati da numeri dispari. Oggi viviamo in un contesto interglaciale (l’Olocene, Stadio Isotopico 1), dominato da un clima temperato, cui corrisponde una cosiddetta fase di stazionamento alto del livello del mare. Il precedente periodo caldo nella storia della Terra, denominato Tirreniano (o Eemiano o Sottostadio Isotopico 5e) risale a circa 125.000 anni fa; il periodo interglaciale ancora precedente (Stadio Isotopico 7) a oltre 200.000 anni fa e così via.

I cicli di oscillazione del livello marino corrispondenti a un ciclo glaciale/interglaciale di circa 100.000 anni di durata sono fortemente asimmetrici. Essi sono caratterizzati da lunghe fasi di abbassamento, «a scatti», del livello marino, di circa 90.000 anni di durata, alternate a rapide fasi di sollevamento sviluppatesi nell’arco di appena 10.000 anni.

Ritenere che i principali mutamenti climatici del pianeta siano unicamente regolati dai cicli di insolazione con periodo di 100.000 anni sarebbe tuttavia un approccio semplicistico al problema delle variazioni naturali del clima. La sovrapposizione ai cicli dell’eccentricità delle già citate modificazioni a piccola scala, note come cicli dell’obliquità e della precessione, ad esempio, è in grado di generare fasi relativamente più calde (interstadiali) o fredde (stadiali) all’interno di periodi glaciali o interglaciali, complicando sensibilmente il quadro.
Bisogna tenere presente, inoltre, che gli effetti delle variazioni dell’insolazione sul glacialismo sono assai complessi: esiste un’inerzia che caratterizza le calotte glaciali, per cui la risposta di queste ultime alle variazioni della quantità di energia che raggiunge la Terra avviene secondo meccanismi non facilmente prevedibili e, comunque, con un certo ritardo.

Vi sono, infine, quesiti ancora aperti, che suggeriscono una certa cautela nella definizione delle cause dei mutamenti climatici del passato: non è ancora chiaro, ad esempio, perché in epoche più antiche del Pleistocene medio, prima cioè di 800.000 anni fa, le oscillazioni climatiche si siano verificate con maggiore frequenza rispetto a quelle attuali, con un periodo prossimo ai 40.000 anni, come è chiaramente indicato da una brusca variazione nel profilo della curva di paleotemperatura nel tempo, per poi passare successivamente a fluttuazioni di minore frequenza (100.000 anni) e maggiore ampiezza.

Eventi catastrofici e il loro impatto sul clima
Il quadro, già oltremodo articolato, dei meccanismi ciclici naturali che regolano le variazioni climatiche è ulteriormente complicato dall’impatto che eventi catastrofici sono in grado di esercitare sul clima del pianeta. L’effetto dell’intorbidamento dell’atmosfera da parte di ceneri vulcaniche costituisce uno dei fattori che gli scienziati tengono in sempre maggiore considerazione nel cercare di stabilire le cause dei mutamenti climatici.

Fonti storiche raccontano di come l’eruzione del vulcano Laki, avvenuta in Islanda nel 1783, e l’esplosione del vulcano Tambora, avvenuta nell’isola di Sumbawa, in Indonesia, nel 1815, determinarono un oscuramento prolungato dei cieli a migliaia di chilometri di distanza. In queste condizioni il sole non fu in grado di scaldare la superficie terrestre, come avviene normalmente, per un lungo periodo. Negli anni immediatamente successivi a questi eventi catastrofici fu registrato su gran parte del globo un abbassamento repentino delle temperature, accompagnato da un incremento delle precipitazioni.
Alcune stazioni dell’area alpina mostrano, ad esempio, che il 1784 fu l’anno più nevoso degli ultimi secoli, ma precipitazioni elevatissime, enormemente superiori alla media, si registrarono anche nel corso dei cinque anni successivi. Benjamin Franklin, durante il suo soggiorno in Francia in qualità di ambasciatore degli Stati Uniti, fu forse il primo a identificare una stretta relazione tra eruzioni vulcaniche e mutamenti climatici postulando, all’indomani dell’evento catastrofico del Laki, che la «nebbia» che avvolgeva l’Europa fosse stata verosimilmente innescata dall’eruzione in Islanda. Franklin, inoltre, attribuì allo stesso evento l’abbassamento delle temperature registrato negli inverni immediatamente successivi all’eruzione. Analogamente, il 1816 viene ricordato come l’anno più freddo degli ultimi due secoli, a tal punto da essere passato alla storia con il nome di «anno senza estate».
In quell’anno le precipitazioni furono quasi doppie rispetto ai valori medi, la neve cadde fino a giugno e si registrarono frequenti gelate durante la stagione estiva; il maltempo impedì la maturazione del grano su vaste aree, con conseguente sviluppo di terribili carestie, soprattutto in zone come la Francia, già tormentate dal susseguirsi delle guerre napoleoniche. Il 1816 registrò inoltre lo sviluppo di ondate migratorie nel New England, assieme all’esplosione di un’epidemia di tifo.

Se valutiamo queste vicende dal punto di vista scientifico, ciò che impressiona, ma che nello stesso tempo ci può aiutare a comprendere meglio l’impatto che l’attività vulcanica può avere sul clima, è il fatto che l’eruzione del Laki non costituisce di per sé un fenomeno eruttivo particolarmente rilevante nella storia del pianeta. Ciò nonostante, i suoi effetti sul clima in Europa furono devastanti, probabilmente in virtù della relativa vicinanza del complesso vulcanico al vecchio continente. La stessa eruzione del Tambora, la più grande tra quelle registrate in epoca storica e responsabile della morte di circa 71.000 persone ebbe, come abbiamo visto, un’influenza molto rilevante sul clima dell’intero pianeta; nemmeno questa eruzione, tuttavia, può essere considerata come un evento vulcanico di estrema rilevanza geologica.

Non dobbiamo dimenticare che la Terra, ben al di là della scala «umana» del tempo, è stata soggetta nel passato geologico a tremende eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo, di gran lunga superiori a quelle conservate nelle testimonianze dell’epoca storica. Sebbene il periodo di ricorrenza di queste supereruzioni (eventi nel corso dei quali vengono prodotti 300 km3 di magma) sia molto lungo, dell’ordine dei 20.000-100.000 anni, la probabilità che queste possano accadere in un futuro a noi molto prossimo è di gran lunga superiore alla possibilità che la Terra possa subire un impatto con un meteorite di notevoli dimensioni.

L’ultima eruzione esplosiva di un supervulcano è quella del vulcano Toba che ebbe luogo, in età preistorica, 74.000 anni fa sull’isola di Sumatra, in Indonesia. Ciò che resta oggi del grande edificio vulcanico è una caldera, che ospita un lago di oltre 1000 km2 di superficie. Studi geologici hanno documentato che l’eruzione ebbe un terribile impatto sulla flora e sulla fauna dell’epoca, determinando l’estinzione di numerose specie su scala planetaria. È stato valutato che anche il genere umano venne ridotto in quel periodo a poche migliaia di individui.

Sulla base dei cosiddetti «tempi di ritorno», oggi non siamo troppo lontani dalla possibilità che un evento di questo tipo si verifichi e sarebbe bene non farsi trovare impreparati a questo spiacevole appuntamento. Gli effetti di una supereruzione nell’arco di un paio di settimane si estenderebbero all’intero pianeta, o per lo meno all’intero emisfero interessato dall’eruzione, sotto forma di oscuramento temporaneo, con ampia caduta di ceneri vulcaniche. È stato stimato che la significativa riduzione dell’irraggiamento solare della superficie terrestre si tradurrebbe in una brusca diminuzione a scala planetaria della temperatura media, di circa 3-5 °C, per la durata di almeno una decade, determinando uno sconvolgimento climatico e dell’intero ecosistema, con conseguenze difficilmente prevedibili.

Alla luce della accertata relazione tra attività vulcanica e mutamenti climatici, molti scienziati tendono oggi a interpretare in «chiave vulcanica» anche piccoli abbassamenti nelle temperature medie registratisi nel corso degli ultimi decenni, di un ordine di grandezza inferiore rispetto ai casi illustrati in precedenza. È il caso, ad esempio, della flessione delle temperature registrata su scala globale negli anni 1992-1993, al termine della celebre eruzione del vulcano Pinatubo, avvenuta nelle Filippine nel giugno del 1991. Nonostante la quantità relativamente piccola di ceneri vulcaniche fuoriuscite dal vulcano filippino, di almeno sei volte inferiore a quella del Tambora, è sicuramente impressionante il fatto che l’eruzione sia stata in grado di arrestare, seppure temporaneamente, la generale tendenza al rialzo termico degli ultimi decenni.

Ricostruire il clima del recente passato: la stratigrafia integrata su carota
I depositi quaternari hanno da sempre suscitato uno scarso interesse da parte del geologo, a causa del fatto che essi sono in genere poco affioranti e, di conseguenza, difficilmente investigabili per mezzo dei tradizionali strumenti del geologo di terreno, quali lente, bussola e martello.
Anche le prospezioni di sottosuolo, stimolate fin dalla seconda metà del secolo scorso dalla ricerca petrolifera, nella maggior parte dei casi hanno attraversato i depositi quaternari senza occuparsene in dettaglio, considerandoli troppo superficiali rispetto ai target di interesse.

Oggi si rileva un interesse crescente nei confronti dei depositi quaternari, per via del fatto che la vita dell’uomo, specialmente in aree di pianura, appare sempre più intimamente legata alle risorse e allo stato di salute di questa parte del territorio. Si pensi, ad esempio, alle risorse idriche custodite nel sottosuolo delle pianure alluvionali e delle piane costiere, all’interno di immensi serbatoi naturali definiti acquiferi.
Ma i depositi quaternari, così come le grandi calotte glaciali, sono sempre più al centro dell’attenzione degli studiosi perchè costituiscono archivi geologici naturali di inestimabile valore per la ricostruzione dell’evoluzione climatica del passato.

Per decenni lo studio dei depositi morenici prodotti dalle fasi di avanzata e di ritiro dei ghiacciai ha costituito lo strumento di riferimento per i geologi nello studio delle oscillazioni glaciali, e l’alternanza di periodi glaciali e interglaciali nel corso del Quaternario è stata tradizionalmente documentata sulla base di evidenze a carattere geomorfologico.
Il limite di un approccio di questo tipo alla ricostruzione dell’evoluzione del clima è tuttavia l’estrema frammentarietà della registrazione degli eventi climatici. A causa degli imponenti fenomeni di erosione connessi alla dinamica evolutiva dei ghiacciai, è infatti normale che la maggior parte delle tracce di mutamenti climatici del passato sia stata completamente cancellata.

Uno degli strumenti oggi comunemente utilizzati dal geologo per decifrare gli effetti delle fluttuazioni climatiche del passato sull’ambiente deriva dallo studio integrato di carote di sedimento prelevate mediante perforazioni. Le successioni sedimentarie estratte dal fondo degli oceani e dei laghi, così come le carote di ghiaccio, presentano ottime potenzialità di successo nell’analisi paleoclimatica perché custodiscono una ricostruzione in continuo dell’evoluzione del clima nel passato. È per questo motivo che gli studi a carattere paleoclimatico si sono trasferiti nel corso del tempo dalla superficie al sottosuolo.

Oltre allo studio stratigrafico e sedimentologico, finalizzato alla ricostruzione dell’ambiente di deposizione del sedimento (ad esempio, un’antica spiaggia, una pianura alluvionale o un delta), l’approccio interdisciplinare del geologo allo studio delle carote prevede numerosi altri tipi di indagini specialistiche, che nella maggior parte dei casi vengono condotte in laboratorio.
L’analisi paleontologica, ad esempio, attraverso l’identificazione dei fossili presenti a diversi livelli stratigrafici, consente di precisare le caratteristiche dell’ambiente di sedimentazione. Fossili di acque dolci sono in genere tipici di ambienti lacustri o di paludi; l’identificazione di specie fossili di acque salmastre è riconducibile ad antichi ambienti lagunari, al limite tra terra e mare; infine, fossili caratteristici di acque a normale grado di salinità indicano che la deposizione del sedimento avveniva in ambiente marino aperto.

Altri tipi di analisi in grado di produrre informazioni utili a ricostruire le caratteristiche degli ambienti del passato fanno a capo a studi mineralogici, geochimici e petrografici. Questi, attraverso la definizione della composizione del sedimento e l’individuazione di alcuni marker, ossia minerali o elementi geochimici peculiari di una certa area di origine, permettono di tracciare il percorso che il materiale ha subito, dalla cosiddetta «area fonte» fino all’ambiente ultimo di deposizione. Infine, un contributo fondamentale alla ricostruzione stratigrafica è fornito dalla datazione di campioni mediante analisi col radiocarbonio, che permette di attribuire con ottima approssimazione un’età a residui organici presenti nel sedimento, consentendo la costruzione di un quadro cronologico di dettaglio di evoluzione ambientale.

Se, da un lato, questo tipo di approccio multidisciplinare risulta elemento indispensabile per ricostruire i mutamenti della geografia e degli ambienti del passato in una certa area, è tuttavia principalmente attraverso lo studio dei pollini fossili presenti nelle carote di sedimento che è possibile ottenere informazioni precise sulle variazioni del clima in ambiente continentale.
L’alternanza di periodi glaciali e interglaciali sulla Terra ha, tra le altre conseguenze, profonde ripercussioni sull’evoluzione e sulla distribuzione della copertura vegetale nelle differenti fasce climatiche. Mediante la ricostruzione di queste siamo in grado, in un percorso a ritroso, di associare allo sviluppo di un certo ambiente una specifica condizione climatica del passato.

All’ultimo acme glaciale, circa 20.000 anni fa, la vegetazione era molto diversa da quella odierna. I pollini fossili custoditi nelle carote di sedimento mostrano che la vegetazione prevalente nelle pianure del nord Italia era rappresentata da steppe e arbusteti, e che la vegetazione arborea era costituita principalmente da foreste di pini, che dalle regioni montane si erano spostate verso valle a causa del raffreddamento climatico.
Alla transizione dal periodo glaciale al successivo interglaciale il quadro vegetazionale segnava profonde trasformazioni: i pini e le betulle subivano un significativo arretramento, cui si contrapponeva lo sviluppo delle foreste termofile (quercia, nocciolo, tiglio e olmo) che, al termine di una difficile fase di sopravvivenza in piccoli nuclei, tornavano a colonizzare il territorio perduto nel corso della glaciazione. La fase climatica più calda era caratterizzata dall’esplosione del querceto, cui seguiva una fase di relativa espansione del faggio, a indicare condizioni climatiche relativamente più fresche.

In Italia, se si eccettuano le investigazioni profonde finalizzate all’esplorazione petrolifera, gli studi geologici relativi alle prime centinaia di metri di sottosuolo sono stati concentrati nell’ultimo decennio solo in poche aree: la pianura Padana, il delta del Tevere, il Valdarno e, nelle regioni a mare, principalmente l’area adriatica. Nel sottosuolo del delta padano, lo studio di carote fino a 200 m di profondità ha identificato, al di sotto dei sedimenti di ambiente litorale che caratterizzano l’attuale piana deltizia, due orizzonti sepolti costituiti da depositi di ambiente costiero e marino-marginale, rispettivamente alle profondità di circa 100 e 170 m. La presenza di questi intervalli all’interno di una spessa successione di depositi continentali ci racconta di un territorio di pianura che veniva ciclicamente interessato da incursioni marine («trasgressioni»).
La caratterizzazione pollinica dei depositi costieri ha permesso una «connotazione climatica» degli antichi ambienti di spiaggia, evidenziando come l’ingressione marina in tutti i casi fu accompagnata da un panorama vegetazionale riferibile a un tipico contesto interglaciale, caratterizzato dal massimo sviluppo del querceto. La transizione verso l’alto da ambienti costieri ad ambienti continentali segnava, in parallelo, una trasformazione della vegetazione verso associazioni tipiche di condizioni glaciali.

L’esempio della pianura Padana costituisce oggi uno dei rari casi di successioni quaternarie in cui sia stata documentata in ambiente costiero una relazione tra fluttuazioni del livello del mare e cambiamento climatico. L’ottima corrispondenza tra il segnale geologico e quello pollinico dimostra che le ingressioni marine del recente passato sono sempre state condizionate da periodi di riscaldamento del pianeta. I depositi del passato, in questo senso, costituiscono ottimi modelli di riferimento per prevedere la possibile evoluzione ambientale di zone costiere soggette a mutamenti climatici.

L’evoluzione del clima dal termine dell’ultima glaciazione
Alle condizioni climatiche che caratterizzano le aree continentali e costiere nelle differenti parti della Terra non può essere attribuita una validità globale. Per questo motivo, per ripercorrere l’evoluzione climatica più recente del nostro pianeta può essere utile focalizzare l’attenzione su ciò che è accaduto negli ultimi 20.000 anni alle nostre latitudini.

All’ultimo acme glaciale il livello dei mari e degli oceani era di 120 m più basso rispetto a quello attuale e la paleogeografia della nostra penisola sensibilmente diversa da quella odierna. La differenza più marcata era localizzata a livello dell’attuale area adriatica: la porzione settentrionale del mare Adriatico, a causa del forte abbassamento del livello del mare, era infatti interamente emersa. In quel periodo la linea di costa era spostata centinaia di chilometri più a sud di quella attuale e il fiume Po attraversava una pianura alluvionale di immense proporzioni.

Questa pianura costituiva il prolungamento verso sud della pianura Padana, estendendosi dalle coste emiliano-romagnole e marchigiane fino a quelle della Croazia. Al bordo meridionale della pianura «alto-adriatica» il Po avanzava sotto l’impulso dell’immissione di nuovo sedimento in mare, formando un apparato deltizio simile a quello attuale, situato però alla latitudine di Pescara. Sul versante tirrenico l’abbassamento del livello del mare aveva conseguenze differenti: a causa della maggiore inclinazione della costa tirrenica rispetto a quella adriatica, fiumi come il Tevere e l’Arno incidevano valli profonde fino a 50 m e larghe alcuni chilometri, nel tentativo di raccordarsi a un livello di base in continuo abbassamento.

In questo periodo il clima era molto più rigido di quello odierno e la temperatura di parecchi gradi inferiore rispetto ai valori medi attuali. La riduzione delle temperature riguardava principalmente i periodi estivi, sensibilmente più freddi di quelli attuali. Gli inverni, al contrario, non presentavano variazioni apprezzabili rispetto alle condizioni di oggi. Nel momento di massima espansione, i ghiacci ricoprivano quasi un terzo delle superfici continentali. Le calotte glaciali si estendevano alle basse latitudini, ricoprendo tutta la Scandinavia, l’area Baltica e buona parte dell’Europa settentrionale e delle isole britanniche ed estendendosi, in America, a tutto il Canada e a parte degli Stati Uniti, a sud della regione dei grandi laghi. Nei sistemi montuosi delle zone temperate, come le Alpi, il Caucaso e l’Himalaya, le nevi permanenti si spingevano a quote di un chilometro più in basso dei limiti attuali.

A partire da 18.000 anni fa, la tendenza climatica si invertì. La transizione dal periodo glaciale all’attuale interglaciale non fu tuttavia istantanea, ma scandita dall’alternanza ciclica di periodi caldi e freddi (interstadiali e stadiali) che fecero da preludio all’Olocene. Una prima fase calda instauratasi tra 13.000 e 11.000 anni fa, fu quella nota come Bølling-Allerød, cui seguì un nuovo, ultimo ritorno del freddo, fino a 10.000 anni fa, fase nota come Younger Dryas.

In seguito allo scioglimento dei ghiacci il mare prese a salire rapidamente. Con un innalzamento medio del livello del mare di circa 1 cm l’anno, l’antico delta padano venne rapidamente sommerso e la foce del Po cominciò ad arretrare verso nord alla velocità media di circa 30 m l’anno. Le tracce del delta del Po di età glaciale, così come di tutti i sistemi deltizi del pianeta formatisi nel corso di questo periodo, sono oggi presenti sul fondo dei mari, a oltre 100 m di profondità, e possono essere identificate per mezzo di studi sismici di geologia marina.
Intorno a 14.000 anni fa il livello del mare si trovava ancora 80 m al di sotto della posizione attuale, mentre nelle prime fasi dell’Olocene, al termine dello Younger Dryas, aveva raggiunto una posizione di circa 20 m inferiore rispetto al livello odierno. In questo arco di tempo, che corrisponde alle prime fasi della trasgressione, le valli incise in precedenza dai fiumi dell’area tirrenica vennero progressivamente «annegate»: le carote di sedimento prelevate all’interno del riempimento della paleovalle dell’Arno testimoniano che il procedere della trasgressione determinò prima un generalizzato impaludamento della valle, cui fece seguito il suo definitivo annegamento. Questo diede origine a un’insenatura paragonabile dal punto di vista geometrico a quelle che caratterizzano oggi i fiordi norvegesi.

L’inizio dell’Olocene corrisponde a una fase di sensibile riscaldamento del pianeta, marcata dallo sviluppo delle foreste termofile. Tra 10.000 e 8500 anni fa il riempimento delle valli fu completato e il mare invase le pianure. La rapida migrazione verso terra della linea di costa diede origine a sistemi costieri, detti barriera-laguna, molto simili a quelli che formano attualmente l’area litorale di Venezia. In questi ambienti le spiagge, fisicamente separate dalla terraferma per mezzo dell’interposizione di aree lagunari, costituivano ambienti effimeri: il continuo sollevamento del livello del mare determinava infatti il rapido annegamento della spiaggia poco dopo la sua formazione e lo spostamento di tutto il sistema costiero in una posizione molto più interna.

Tra 8000 e 4500 anni fa il clima raggiunse condizioni particolarmente favorevoli e il caldo toccò la sua fase culminante: è questo il periodo noto come «optimum climatico», durante il quale il limite in Europa tra le foreste di latifoglie e le steppe si spostò sensibilmente verso nord, alla latitudine di San Pietroburgo, e si registrò contemporaneamente la penetrazione della quercia e del nocciolo in Scandinavia. Queste profonde modificazioni nella vegetazione furono accompagnate da uno spostamento anche delle fasce altitudinali, che videro le foreste spingersi 300 m al di sopra del livello attuale.

Alla fase di «optimum» climatico corrisponde la massima ingressione del mare, registrata tra 6000 e 5000 anni fa, quando i mari e gli oceani invasero porzioni cospicue dei territori che oggi formano le pianure costiere di tutto il mondo. L’effetto più sensibile dell’ingressione marina in Italia si ebbe nell’area padana, in virtù della sua superficie pressoché piatta. Studi di dettaglio basati sull’analisi di carote prelevate mediante sondaggi indicano che 5000 anni fa la linea di costa adriatica si estendeva verso l’interno di 20-30 km rispetto alla posizione attuale.

A partire da 5000 anni fa il clima si stabilizzò verso condizioni relativamente più fresche, intervallate da brevi periodi di maggiore aridità. In questo periodo, corrispondente a una fase di stazionamento alto del livello del mare che perdura ancora oggi, il continuo apporto di sedimenti in mare da parte dei fiumi favorì in tutto il mondo l’avanzamento dei sistemi deltizi, portando alla costruzione delle attuali piane costiere. Anche i principali apparati deltizi italiani, come quelli del Po e del Tevere, iniziarono a formarsi a partire da questo momento, continuando poi ad accrescersi in epoca storica.

La ciclicità climatica a scala millenaria
A partire dalla fine degli anni ’80, gli studi a carattere paleoclimatico si sono trasferiti dalle carote di fango a quelle di ghiaccio, che si sono dimostrate ancor più generose di informazioni delle prime circa l’evoluzione recente del clima. La prima carota a essere studiata in dettaglio fu quella prelevata nel sito di Vostok, in Antartide. La lunghezza di questa carota, che fu estratta nel corso di un decennio, tra il 1990 e il 1999, supera i 3,5 km e attraversa un intervallo di tempo di circa 400.000 anni.
Studi su carote di ghiaccio furono successivamente intrapresi in Groenlandia, dove la registrazione della curva degli isotopi dell’ossigeno mise in luce, per la prima volta, la presenza di cicli ad alta frequenza, a scala millenaria. Questi studi hanno dimostrato che i fattori orbitali non sono gli unici a governare il comportamento delle calotte glaciali e che esiste una ciclicità di ordine inferiore a quella dei cicli orbitali, detta sub-milankoviana, in grado di esercitare un’influenza significativa sul clima.

La ciclicità a scala millenaria è stata osservata inizialmente in carote di ghiaccio riferite alla fine dell’ultimo periodo interglaciale e all’ultimo periodo glaciale; è oramai certo che questi periodi furono scanditi dal ripetersi di episodi di lento raffreddamento, seguiti da fasi relativamente brevi di rapido riscaldamento. Coppie di eventi di questo tipo, con una durata oscillante tra 1500 e 3000 anni, prendono il nome di cicli di Dansgaard-Oeschger (cicli D-O), dal nome dei due studiosi, danese il primo, svizzero il secondo, che li evidenziarono per primi. Studi ancor più recenti hanno messo in luce la presenza di una ciclicità a scala millenaria anche nelle carote dell’Antartide.

L’alternarsi di periodi relativamente freddi e caldi con periodicità circa millenaria è stato recentemente evidenziato anche all’interno di carote oloceniche prelevate in aree costiere, a latitudini inferiori. Dallo studio integrato di queste successioni risulta chiaramente che il rapido innalzamento del livello del mare che contraddistingue la prima metà dell’Olocene non avvenne gradualmente, ma «a scatti», con gradini di circa 1500 anni di durata.
Ogni «scatto» trasgressivo, corrispondente a una fase di relativo riscaldamento, faceva migrare sensibilmente verso terra la linea di costa, annegando una porzione considerevole della fascia litorale; a questa fase seguiva un periodo relativamente freddo, cui corrispondeva una fase di stasi del livello del mare, con conseguente stabilizzazione degli ambienti costieri. Studi recentissimi relativi ai delta del Mississippi, dell’Ebro, del Rodano e del Sud-Est Asiatico, ma anche ai delta del Po e del Tevere, indicano che questo tipo di meccanismo si è protratto per tutto l’Olocene, sino ai giorni nostri. È quindi ipotizzabile che tale meccanismo continuerà a operare nell’immediato futuro, registrando l’alternanza di periodi di significativo incremento delle temperature (della durata di uno o pochi secoli), seguiti da più lunghe fasi di raffreddamento.

Le cause dei cicli a scala millenaria, che assumono particolare importanza per l’uomo perché si esplicano con un periodo di ritorno che va a sovrapporsi ai ritmi della nostra civiltà, sono purtroppo ancora relativamente poco conosciute. Variazioni nell’attività solare, evidenziate da fluttuazioni nella produzione di nuclidi cosmogenici, o l’attività vulcanica sono state considerate possibili fattori di controllo di cicli climatici a scala millenaria. L’ipotesi oggi più accreditata, tuttavia, è che questo tipo di ciclicità climatica ad alta frequenza sia legata a processi che governano l’espansione o la contrazione delle calotte glaciali e la circolazione delle masse d’acqua negli oceani.
Attualmente, le acque fredde e salate dell’Atlantico settentrionale sono sufficientemente dense da sprofondare nella parte più profonda dell’oceano, scorrendo verso sud. Questa corrente è bilanciata da una corrente superficiale di verso opposto, diretta dai tropici verso nord. In questo contesto, un incremento anche temporaneo nell’apporto di acque dolci nell’Atlantico settentrionale, causato da un modesto scioglimento delle calotte glaciali, potrebbe diluire le acque superficiali a tal punto da impedirne lo sprofondamento. La mancanza della corrente calda di compensazione in superficie favorirebbe il raffreddamento alle alte latitudini e il conseguente cambiamento climatico, fino al ristabilirsi della condizione di partenza. Sarebbe dunque sufficiente una piccola variazione negli apporti di acqua dolce alle alte latitudini a innescare un ciclo di variazione climatica a scala millenaria.

Influenza delle variazioni naturali del clima sulla storia dell’uomo
Stabilire in quale misura le fluttuazioni climatiche abbiano favorito o ostacolato lo sviluppo storico della nostra civiltà è cosa alquanto difficile. Esistono numerosi esempi del passato, tuttavia, che testimoniano con chiarezza l’influenza che i mutamenti climatici ebbero sulle vicende umane. Molti di questi esempi si riferiscono a sconvolgimenti climatici (aumento o diminuzione delle temperature, rapida variazione delle condizioni di umidità) che determinarono bruschi cambiamenti nelle abitudini e nei luoghi di abitazione dei gruppi umani. Migrazione di popoli, epidemie e fasi di relativa decadenza non sono fatti nuovi nella storia dell’umanità.
E sebbene eventi di questo tipo siano più facilmente riconducibili a fenomeni di incremento demografico, locale insufficienza di cibo ecc., piuttosto che non direttamente all’instaurarsi di condizioni climatiche sfavorevoli, è molto probabile che il mutamento improvviso delle condizioni climatiche abbia esercitato un ruolo forzante indiretto, dando luogo a scenari non troppo dissimili da quelli che si potrebbero verificare in futuro, nel caso in cui alcune aree del pianeta dovessero da un momento all’altro divenire inospitali per l’uomo.

Non vi è dubbio che l’evoluzione stessa del genere umano sia stata condizionata dai grandi cambiamenti climatici succedutisi nel corso del Quaternario. L’insediamento dell’uomo di Neanderthal nelle regioni fredde dell’Europa tra 100.000 e 30.000 anni fa, nel pieno cioè dell’ultima fase glaciale, fu reso possibile da una costituzione fisica eccezionalmente robusta e prestante, che ne rendeva possibile l’adattamento al freddo e al gelo della lunghissima stagione glaciale.

Se limitiamo il nostro sguardo alla storia più recente dell’uomo, possiamo constatare che la fase di «optimum climatico», che si sviluppò circa 5000 anni fa nel cuore dell’Olocene, ebbe tra gli altri effetti la desertificazione del Sahara settentrionale, area un tempo sede di un’ampia copertura di savane. A causa dell’incremento delle temperature e del progressivo prosciugamento dei territori, gran parte delle popolazioni fu costretta ad addensarsi nelle principali zone umide, in prossimità dei grandi fiumi e nella regione del delta del Nilo, dando origine alle grandi civiltà del Mediterraneo orientale. Nelle oasi persistettero condizioni di vita sostenibili per altri tremila anni, fino a che l’instaurarsi di condizioni estremamente aride determinò la fine di gran parte delle civiltà pastorali dell’area nordafricana.

La più recente fase calda nella storia del nostro pianeta si riferisce all’età medievale, un periodo di circa quattro secoli di durata, a cavallo dell’anno 1000 d.C. In questo periodo, condizioni climatiche particolarmente miti, anche se lontane dal caldo che caratterizzò l’«optimum climatico», determinarono una fortissima riduzione nell’estensione della banchisa polare. È in questo periodo, da alcuni definito come l’«optimum climatico medioevale», che i vichinghi conobbero la fase più fiorente della loro civiltà.
Questa espansione fu favorita, oltre che dalla elevata pescosità dei mari, dall’estrema facilità con cui era possibile, a quel tempo, navigare alle altissime latitudini in mari liberi dai ghiacci. Il caldo medievale favorì la colonizzazione di terre oggi inospitali, come l’Islanda e la Groenlandia. Il nome di quest’ultima, che significa «terra verde», ci ricorda che questa terra solo poche migliaia di anni fa in gran parte non era avvolta dai ghiacci.

La fine del Medioevo segnò una fase di significativo raffreddamento climatico, che durò alcuni secoli, dall’inizio del XIV fino alla metà del XIX, durante la quale le temperature medie registrarono un generale abbassamento. Questo periodo, che prende il nome di «Piccola Età Glaciale», vide una significativa espansione delle calotte glaciali in tutta Europa e marcò l’instaurarsi di condizioni climatiche così rigide da favorire lo sviluppo di gravi carestie. Lo studio delle morene, i depositi che testimoniano l’espansione dei ghiacciai, ci dice che durante la «Piccola Età Glaciale» nell’area alpina i ghiacciai si estendevano su di una superficie quasi doppia rispetto a quella attuale. La temperatura prese a risalire solo a partire dal 1850, e il caldo si stabilizzò solo nel XX secolo.

Il futuro del nostro pianeta
La variabilità naturale del clima si manifesta a scale temporali molto diverse: alcune investono direttamente l’uomo; altre hanno periodo enormemente più lungo e si intrecciano con la storia geologica del pianeta. Operare proiezioni e previsioni di variabilità climatica unicamente sulla base di una serie di dati limitati nel tempo può essere fonte di grossolani errori di valutazione. Un mutamento climatico percepito su di un arco temporale di appena pochi decenni oppure di un secolo non implica necessariamente un’anomalia a una scala temporale più estesa.

Al contrario di ciò che si è spesso indotti a pensare, le caratteristiche climatiche attuali non costituiscono un fatto eccezionale nella storia della Terra, se confrontate con quelle del recente passato geologico. Condizioni di riscaldamento analoghe o superiori a quelle che contraddistinguono il nostro pianeta da alcuni decenni si sono verificate più volte in periodi antecedenti alla rivoluzione industriale e, di conseguenza, sicuramente al di fuori di ogni possibile contributo antropico. All’«optimum climatico medioevale», alcuni secoli fa, la temperatura media invernale alle nostre latitudini era verosimilmente di 1 °C superiore a quella attuale; temperature sensibilmente più elevate caratterizzavano l’«optimum climatico» olocenico, alcune migliaia di anni fa.

A causa della sovrapposizione di meccanismi di variazione climatica operanti a differenti scale temporali le tendenze climatiche del passato, sia verso il riscaldamento che verso il raffreddamento, sono sempre state accompagnate dallo sviluppo di più brevi fasi in controtendenza. Sfortunatamente, il periodo di 30 anni che oggi viene utilizzato come base per invocare una generale tendenza al riscaldamento del pianeta non è sufficientemente lungo per essere interpretato con certezza in un senso o nell’altro.
Nel corso del XX secolo, ad esempio, nonostante la generale tendenza verso l’aumento delle temperature, queste non sono andate sempre crescendo. Tra il 1900 e il 1920 e, in tempi molto più recenti, tra il 1960 e il 1980, nell’emisfero settentrionale si sono registrate brevi fasi di raffreddamento, a tal punto che nella letteratura dell’epoca sull’argomento non è raro imbattersi in affermazioni che danno per scontato l’inizio di una fase di definitivo raffreddamento del pianeta. Come esempio contrario, se guardiamo anche solo alcuni secoli indietro, testimonianze storiche indicano che anche nel corso della Piccola Età Glaciale il freddo non fu persistente. La morsa secolare del gelo venne interrotta da lunghissimi periodi di clima mite, che si protrassero anche per decine di anni. Non è da escludersi che le incursioni cicliche della peste in questo periodo abbiano avuto un possibile fattore di controllo nelle variazioni climatiche ad altissima frequenza.

Il fatto che le condizioni climatiche attuali non costituiscano in assoluto un’anomalia nella storia climatica recente del nostro pianeta non significa tuttavia che l’uomo non stia effettivamente destabilizzando la delicatissima macchina del clima. I ghiacci coprono attualmente appena il 7% della superficie degli oceani di tutto il mondo ed è certo che negli ultimi 30 anni la loro estensione è andata riducendosi del 10% ogni dieci anni. Anche nell’area alpina il progressivo ritiro dei ghiacciai si è paurosamente accentuato negli ultimi trent’anni e non si scorge all’orizzonte alcuna inversione di tendenza. Se l’attuale tasso di incremento della temperatura non dovesse subire variazioni nell’immediato futuro, è possibile prevedere che nel 2100 gli ecosistemi saranno esposti a temperature globali tra le più elevate mai registrate nella storia degli ultimi 800.000 anni.

Allo stato attuale delle conoscenze è dunque estremamente difficile prevedere l’evoluzione climatica futura. Trasformazioni locali e globali di clima e ambiente sono destinate ad avere un impatto sull’uomo e sulla sua civiltà. Alcune aree geografiche, come le terre artiche o quelle alpine saranno particolarmente sensibili a variazioni di temperatura; altre, come l’area mediterranea nel suo complesso, saranno principalmente influenzate dal grado di piovosità e dal possibile sviluppo di condizioni aride. Paradossalmente, operare previsioni sul mutamento climatico alla scala dei decenni o dei secoli è oggi molto più difficile di quanto non lo sia alla scala dei tempi geologici (dalle decine di migliaia di anni in su).

Lo studio geologico del recente passato indica che appena 5000 anni fa, nel momento più caldo dell’attuale periodo interglaciale, il cosiddetto «optimum climatico», il mare invadeva per decine di chilometri le piane costiere di tutto il mondo. Durante il precedente interglaciale, il Tirreniano, un periodo ancor più caldo dell’Olocene, il livello del mare era alcuni metri più elevato dell’attuale e la migrazione verso terra della linea di costa ancora più sensibile. Gli studi della ciclicità millenaria hanno messo in luce gli effetti del susseguirsi periodico di fasi di deterioramento e miglioramento climatico sulla dinamica vegetazionale e sulla geomorfologia delle aree costiere.

Grazie all’insieme di questi studi il geologo è oggi in grado di tracciare con relativa precisione lo scenario di evoluzione futura degli ambienti costieri nel caso di un innalzamento del livello marino. Un sollevamento del livello del mare non solo comporterebbe l’inevitabile annegamento di vasti settori della costa in tutto il mondo, ma creerebbe uno sconvolgimento dell’intera fisiografia dell’ambiente litorale.
I fiumi perderebbero progressivamente la loro efficienza, fenomeni di rotta fluviale e avulsione determinerebbero repentini cambiamenti nell’idrografia fluviale. Interi apparati deltizi verrebbero abbandonati e velocemente annegati per effetto della subsidenza. Le foci fluviali si trasformerebbero in estuari. Le spiagge verrebbero sostituite da sistemi costieri instabili, con spiagge effimere separate dalla terraferma da strette aree lagunari. L’intensità delle maree aumenterebbe in modo considerevole.

Purtroppo, l’approssimazione dei metodi cronologici di datazione fa sì che le trasformazioni climatiche del passato non siano facilmente confrontabili con quelle riferite all’epoca storica. L’analisi dei mutamenti climatici del passato desunta dallo studio geologico fornisce informazioni realistiche sul futuro del pianeta, ma la risoluzione temporale è limitata per ciò che concerne eventi sviluppati alla scala sub-millenaria.
Le ricerche in corso sulla ciclicità climatica a scala millenaria e secolare suggeriscono che nell’immediato futuro l’origine, la distribuzione e la localizzazione delle correnti marine profonde negli oceani, e in modo particolare della corrente profonda che si forma nell’Atlantico settentrionale e di quella circum-antartica, svolgeranno un ruolo fondamentale nel governare i mutamenti climatici. Il parziale scioglimento delle calotte polari causato dal riscaldamento di origine antropica potrebbe creare squilibrio negli apporti di acque dolci agli oceani, entrando in interferenza con la ciclicità climatica naturale ad alta frequenza, con conseguenze imprevedibili.

In un periodo in cui si parla quasi esclusivamente di global warming, forse non tutti sanno - ironia della sorte – che sulla base della teoria milankoviana il pianeta Terra sta naturalmente completando l’arco di un periodo caldo, interglaciale. La durata di questa fase, per analogia con i cicli immediatamente precedenti quello attuale, dovrebbe essere compresa tra 8000 e 15.000 anni. Se facciamo corrispondere all’inizio dell’Olocene, ossia al termine dell’ultima pulsazione fredda (lo Younger Dryas) l’inizio della fase calda che stiamo vivendo e se la teoria milankoviana è corretta, nel giro di pochi secoli o, al massimo, di 4000 anni cominceremo a muoverci, sia pure molto lentamente, verso una nuova fase glaciale. Questa si svilupperà attraverso un progressivo, ma inesorabile abbassamento delle temperature, che culminerà in una nuova glaciazione, tra circa 90.000 anni. Sarà così saggio l’uomo da consentire al pianeta il completamento del suo ciclo naturale?